Il mito delle origini nel romanzo più famoso di Cesare Pavese, La luna e i falò
Le luci della notte mi facevano gridare e rotolarmi in terra perch’ero povero, perch’ero ragazzo, perch’ero niente. Quasi godevo se veniva un temporale, il finimondo di quelli d’estate…
“Li hanno fatti quest’anno i falò? … Noi li facevamo sempre. La notte di San Giovanni tutta la collina era accesa… Chi sa perché mai si fanno questi fuochi”.
“Non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace”.
E la luna, cosa c’entra la luna?
“La luna … bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi”.
Il cuore de La luna e i falò di Cesare Pavese risiede quasi interamente in questi “postulati” della cultura contadina, una cultura secolare dove la vicenda dell’uomo non si snoda a prescindere dal paesaggio naturale: si tratta di una reale simbiosi all’interno della quale l’uomo e la natura si influenzano reciprocamente.
Il personaggio centrale de La luna e i falò è in realtà il narratore dell’intera vicenda. Questi ritorna nel luogo natio, un paese delle Langhe, dopo aver vissuto per lunghi anni in America dove sarebbe emigrato facendo fortuna.
“Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale”.
Una singolare immutabilità del paesaggio umano ed ambientale si prospetta agli occhi del protagonista che si ritrova a contemplare i luoghi dove ha vissuto l’infanzia: “I ragazzi, le donne, il mondo non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, le ragazze fumano – eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro tutto sarà passato”.
La straordinarietà dei romanzi di Cesare Pavese non è da ricercare nello snodarsi della trama: le vicende dei personaggi si muovono all’interno di una drammatizzazione alquanto piatta, in primo piano sono invece i sentimenti e l’avventura interiore.
L’amicizia è il sentimento più caro a Pavese, quello che traspare maggiormente dai suoi romanzi: ne La luna e i falò il narratore ritrova Nuto, il compagno di un tempo, con cui ripercorre le vicende del passato. E’ un sentimento intenso che prende corpo sullo sfondo suggestivo delle notti in collina: “Andavamo così, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro destino. Io tendevo l’orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la martinicca di un carro…”
Il romanzo si snoda altresì intorno alla contrapposizione fra il tempo dell’infanzia e il tempo della maturità: da una parte ci sono le sere di collina infiammate dai falò. Le luci della notte “mi facevano gridare – rievoca il narratore – e rotolarmi in terra perch’ero povero, perch’ero ragazzo, perch’ero niente. Quasi godevo se veniva un temporale, il finimondo di quelli d’estate…”
Dall’altra parte c’è l’età delle disillusioni, l’amara constatazione che crescere non vuol dire soltanto “fare delle cose difficili” bensì “andarsene, invecchiare, veder morire”.
E cosa dire del paesaggio delle Langhe che Pavese descrive con eccezionale bravura: i paesi dell’infanzia che, di giorno, sono “chiari e boscosi sotto il sole”, mentre di notte sono “nidi di stelle nel cielo nero”; le serate con gli amici che “appena fuori della luce del locale, si era soli sotto le stelle, in un baccano di grilli e rospi”.
Il destino dell’uomo e ogni ricerca di sé si risolvono quindi in un ritorno alle origini, in quei luoghi unici cui si dà un significato assoluto: in Pavese è la collina che diventa il luogo mitico dove ritornare per riconoscersi.
E cosa sono la luna e i falò se non dei riferimenti mitici che accompagnano il ciclo delle stagioni e le vicende degli uomini?
Ai falò quali elementi superstiti di una cultura popolare si affiancano altri falò, il cui significato rinvia al desiderio di ricominciare che ha l’uomo.
“Dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no? magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci”.