Come noi ci vediamo e come ci vedono gli altri (2)

Leggendo L’idiota, capolavoro della maturità di Dostoevskij

paolo vetri
“Fanciulla che esce dal bagno” Paolo Vetri – riproduzione su carta. Foto di D.Rotolo

Seconda parte

La donna “irreversibilmente perduta

«Tutto in voi è perfezione...
anche la magrezza e il pallore...
non si potrebbe desiderarvi diversa 
da quello che siete...
Una bellezza simile è una forza.
Con una simile bellezza
si può rovesciare il mondo!»

L’idiota di Fëdor Dostoevskij ha una trama complessa che non propende esclusivamente verso la figura centrale del principe Myskin le cui vicissitudini scivolano in secondo piano per lasciare spazio a quelle degli altri personaggi.

A dare spessore emotivo al romanzo è il dramma psicologico di Nastasja Filippovna e il lettore non può non innamorarsene. Nastasja è dotata di intelligenza e bellezza non comuni, riconosce la sua superiorità sulla gente piccolo-borghese che la circonda e tuttavia il suo orgoglio è lacerato dalla umiliazione recatale da una seduzione precoce.

Nella profondità dell’animo Nastasja Filippovna è tormentata dall’idea di essere una donna distrutta e storpiata per sempre e il conflitto che avviene nella sua coscienza si riflette nel suo agitarsi febbrile tra Myskin, simbolo della purezza morale, e Rogozin, espressione suprema dell’umiliazione morale.

Il principe Myskin incontra per la prima volta lo sguardo di Nastasja Filippovna in un ritratto della donna e ne rimane profondamente colpito: “Un viso straordinario! Sono convinto che deve avere un destino poco comune“.

«Chi non sarebbe stato ammaliato da una tale donna, fino alla perdita della ragione?» (Dostoevskij, tr. it. 1986, p.218). Ecco perché il senso di smarrimento è anche, forse soprattutto, in fondo agli occhi di Nastasja Filippovna, occhi grandi e neri che «brillavano come due carboni ardenti» sul volto pallido come un cencio, occhi capaci di suscitare passioni, di annientare il sentimento di sé degli uomini che impazziscono d’amore per lei.

In una riflessione sugli stati passionali René Kaes (1991, p.55) osserva che il termine passione descrive perfettamente l’intensa sofferenza psichica, prossima agli stati psicotici, che prelude allo straripare fuori di sé della capacità di contenere e di essere contenuto; la capacità di pensare è paralizzata e attaccata su di uno sfondo inestricabile in cui prevale la confusione degli elementi o l’indifferenziazione dell’insieme: l’abolizione di confini del Sé, l’evanescenza del soggetto provocano uno spazio psichico indifferenziato cosicché l’individuo è posto di fronte all’angoscia di ciò che è sconosciuto e della non identità.

Il momento culminante dell’opera si ha nella scena del compleanno di Nastasja Filippovna che in quella circostanza avrebbe dovuto rispondere pubblicamente alla proposta di matrimonio del suo fidanzato, Ganja. Tutto sembra calmo e dignitoso quando d’un tratto esplode il dramma interiore: il principe Myskin dichiara il suo amore a Nastasja confessando altresì di essere erede di una grossa fortuna mentre Rogozin, dissoluto uomo di mondo, offre a Nastasja centomila rubli chiedendole di fuggire con lui.

Nastasja, fuori di sé, getta il denaro tra le fiamme del camino e mette alla prova il disinteresse verso il denaro del fidanzato, Ganja. Il ritmo descrittivo dell’episodio è sensazionale (Dostoevskij, 1986, pp. 213-214) e la scena è pervasa da estrema tensione, Nastasja provoca il fidanzato: «Ganja, voglio contemplare la tua anima a nudo. (…) Vedi questo pacco? Contiene centomila rubli! Io lo getterò subito nel fuoco del camino davanti a tutti (…) Appena la fiamma lo avrà avvolto, fatti avanti, e a mani nude, senza guanti, tiralo fuori! Se riuscirai a farlo, i denari saranno tuoi, tutti i centomila rubli!».

Mentre tutti gli astanti cercano di dissuaderla, Nastasja getta il pacco tra le fiamme. «E’ impazzita, è impazzita!» risuona tutt’intorno. Ganja resta a guardare il fuoco mentre Nastasja, con impeto crescente, continua ad aizzarlo: “Che stai aspettando? Non vergognarti! Avanti! Si tratta della tua felicità!».

Ed ecco che Nastasja Filippovna rifiuta l’amore di Myskin e di Ganja perché pensa di non meritarlo e fugge insieme a Rogozin, uomo dissoluto e a lei affine più di ogni altro (p.203): «Meglio andare in strada, là dov’è il mio vero posto! Voglio lasciarmi andare alla baldoria in compagnia di Rogozin! Infatti, io non ho nulla che sia proprio mio; me ne andrò senza prendere nulla».

Nastasja Filippovna cerca disperatamente di raggiungere una rinascita morale, sogna di incominciare una nuova vita ma finisce sempre con l’abbandonarsi al suo destino di donna perduta irreversibilmente. E così facendo si arrende al cliché che gli altri le attribuiscono impunemente!

Ma, forse,  Nastasja Filippovna si compiace del suo smarrimento, forse ama persino il suo disonore e il costante pensiero di essere stata disonorata e offesa. Mutuando una metafora di Jean Paul Sartre, Nastasja Filippovna è una viaggiatrice senza biglietto: la sua presenza non è stabilità, non ha suolo ma è precarietà, esposizione al rischio: è per questo che Nastasja Filippovna si rivela essere il personaggio più interessante di Dostoevskij, senz’altro quello che maggiormente incarna il suo stile!

Bibliografia

Dostoevskij, M.F. (1868), L’idiota. Milano: Garzanti, 1986.

Kaes, R. (1991), Realtà psichica e sofferenza nelle istituzioni. In AA.VV., L’istituzione e le istituzioni. Roma: Borla, 1991.

 

 

Come noi ci vediamo e come ci vedono gli altri (1)

Leggendo L’idiota, capolavoro della maturità di Dostoevskij

lo forte
Salvatore Lo Forte: “Ritratto di giovane gentiluomo”. Olio su tela. Palermo, GAM https://instagram.com/p/67GVffJtwe/

Prima parte

L’uomo “assolutamente buono

Era un giovane sui ventisei o ventisette anni
con folti capelli biondi, guance infossate
e una leggera barbetta a punta,
così chiara,da parer bianca.
Aveva grandi occhi azzurri e fissi,
dallo sguardo dolce,
 pieno di quell'espressione strana,
che basta ad alcuni per individuare
a prima vista un malato di epilessia»

Un treno si avvicina sbuffando a Pietroburgo in una giornata di disgelo di Novembre. Il tempo è umido e nebbioso. I viaggiatori di terza classe, dopo la nottata in treno, hanno le palpebre gonfie e i loro visi sono giallognoli, “del medesimo pallore della nebbia...”

C’è tutto questo nella prima pagina de L’idiota di Fedor Dostoevskij e già traspare la precarietà del vivere: c’è  l’aria scura di Pietroburgo, i volti assenti dei viaggiatori, c’è tutto il senso dello smarrimento. In questo lo scrittore rispecchia uno degli atteggiamenti tipici dell’esistenzialismo e cioè l’accentuazione del carattere precario e manchevole dell’esistenza.

Un paesaggio desolato e una affollata vettura di terza classe sottolineano, forse anche con compiacenza, l’intima miseria dell’uomo. E lo smarrimento c’è dovunque nei romanzi di Dostoevskij, nella ferrovia a Novembre, nelle facce esauste dei viaggianti e nel volto “privo di colori” del principe Myskin che giunge a Pietroburgo dopo un lungo soggiorno in Svizzera dove è stato ricoverato in una clinica per epilettici.

Il principe Myskin, smarrito nella bolgia sociale di Pietroburgo, è un puro di cuore, timido e bonario e non conosce inganni e doppiezze tanto che dice sempre la verità anche a costo di apparire ridicolo. Il principe Myskin, personaggio centrale de L’idiota, è descritto da Dostoevskij come “assolutamente buono” e in perenne contrasto con l’indifferenza e la crudeltà degli uomini.

Il principe Myskin non si pone mai di fronte a nessuno in un atteggiamento preconcetto, è interiormente libero e disponibile, la sua intelligenza non è mai offuscata dai pregiudizi: «Gli uomini si giudicano così, ad occhio e croce, e non riescono a conoscersi».

Come osserva René Kaës (1991, p.14) una porzione del nostro Sé è costantemente «fuori di Sé» e quel qualcosa che è  «fuori di Sé» ci espone alla follia e allo spossamento, insomma all’alienazione.

Uno dei personaggi de L’idiota così esclama al cospetto del principe Myskin (1986, p.388): «Ecco il vero modo di far perdere la bussola a un uomo! Per amor di Dio, principe, ora dimostrate una semplicità e un’ingenuità come non se ne sono mai viste (…) poi ad un tratto, trafiggete l’uomo come con una freccia, con la profondità delle vostre osservazioni psicologiche».

Idiota o intelligente? Sprovveduto o sapiente? Cos’è davvero il principe Myskin?

«Addio, principe, ho visto per la prima volta un uomo!», così Nastasja Filippovna – l’eroina della storia – saluta Myskin alla fine della prima parte del romanzo. Di converso qualcun altro lo reputa un “misero principe”, nient’altro che un “idiota malato”, insomma un “imbecille, che non conosceva il mondo e non vi trovava il suo posto”.

Dostoevskij, nella letteratura contemporanea, è forse l’artista che più acutamente ha intuito questo carattere infinitamente problematico dell’uomo…” (Remo Cantoni, 1948, p.32 )

I suoi romanzi sono straordinariamente interessanti non già perché i personaggi espongano idee o concetti speculativamente originali e neppure perché le trame siano intrinsecamente simboliche: Dostoevskij è straordinario proprio per la sua capacità di problematizzazione. “Si danno casi nella vita in cui si possono bruciare i ponti, in cui si può anche non tornare a casa: la vita non è fatta solo di pranzi, colazioni …” .

In Dostoevskij anche lo stile espositivo risulta essere il prodotto di una costante problematizzazione. La narrazione è a tratti interrotta dalla inserzione di note e appunti sui personaggi tanto che il lettore vi si smarrisce. Dostoevskij si serve di tali interpolazioni per scavare i tratti psicologici fondamentali dei personaggi, per gettar luce sul loro universo e sul loro modo di pensare. E’ come se nel romanzo fossero inseriti altri manoscritti che interrompono l’azione e rallentano il corso del racconto per dischiudere nuove e lontane prospettive.

Leggere L’Idiota di Dostoevskij vuol dire correre il rischio di smarrirvisi: vi si cerca disperatamente una strada in mezzo alla foresta per ritrovarsi, dopo vani affanni, in una “terra di nessuno” dove ogni antica sicurezza perde consistenza.

Bibliografia

Dostoevskij, M.F. (1868), L’idiota. Milano: Garzanti, 1986.

Kaes, R. (1991), Realtà psichica e sofferenza nelle istituzioni. In AA.VV., L’istituzione e le istituzioni. Roma: Borla, 1991.

 

 

Il conflitto tra le pulsioni e il rigore morale

La morte a Venezia: il conflitto tra Es e Super-Io affrontato dal più grande scrittore europeo

 

E dunque era necessaria una interruzione, un periodo di vita nomade, scioperatezza, aria di paesi lontani e acquisizione di sangue nuovo, affinché l’estate diventasse sopportabile e proficua…”

Lo scrittore Gustav Von Ascenbach – personaggio centrale de La morte a Venezia di Thomas Mann – sente d’un tratto la necessità di viaggiare, di interrompere il rigore quotidiano a cui per tanto tempo ha obbedito.

Attratto dall’esotismo del sud, lo scrittore si reca a Venezia: qui la vita distruggerà la dignità faticosamente raggiunta dall’artista, smascherandolo nella sua essenza dissoluta, incline all’avventura, affascinata dall’abisso.

A Venezia, infatti, Gustav Von Ascenbach resta affascinato da un adolescente di nome Tadzio: “il volto pallido e assorto, incorniciato dai capelli biondo miele, la linea schietta del naso, la vezzosa bocca, l’espressione soave e divina di gravità ricordavano le sculture greche dell’epoca aurea…

La mera contemplazione che la bellezza perfetta suscita nell’artista si trasformerà gradatamente in una passione che annienterà le difese dello scrittore. “La bellezza è la sola forma dell’immateriale che possiamo percepire coi sensi.”

Anche la Venezia descritta da Thomas Mann è bella più che mai, di una bellezza decadente però: nelle acque torbide che esalano odori putridi, nel grigiore del cielo si respira tutta la disperazione di Von Ascenbach sospinto sempre più verso il caos dionisiaco dove il contegno borghese si dissolve nel regno della fantasia e dei sensi.

“La morte a Venezia si apre con il racconto realistico di una passeggiata alla periferia di Monaco, non ci risparmia nulla degli orari dei treni e dei piroscafi (…) sotto sotto scorre, inesauribile e bruciante, segretamente generata da un simbolismo più antico, la grande fantasticheria di un uomo in preda alla propria fine, che attinge al proprio Es la morte e l’amore”. Questo è quanto scrive Marguerite Yourcenar in un interessante saggio su Thomas Mann (Con beneficio d’inventario, ed. italiana Bompiani 1993) dove la scrittrice tira in ballo espressamente il concetto di Es.

Freud, in Introduzione alla psicoanalisi sosteneva che “l’Es è la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità (…)lo chiamiamo un caos, un crogiolo di eccitamenti ribollenti (…) impulsi contrari sussitono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda. Com’è ovvio, l’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità.”

Se l’Es rappresenta le passioni sfrenate, l’Io – di converso – nella vita psichica è “il paladino della ragione e dell’avvedutezza (…) destinato a rappresentare le richieste del mondo esterno”

Dall’altro canto v’è un severo Super-Io che è quella parte della personalità che, senza tener conto delle difficoltà provenienti dall’Es e dal mondo esterno, esige l’ottemperanza a determinate norme di comportamento e punisce l’Io, in caso di inadempienza, con spasmodici sentimenti di inferiorità e di colpa”.

“Aizzato così dall’Es, limitato dal Super-Io, respinto dalla relatà, l’Io lotta per stabilire l’armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in lui; e si comprende perché tanto spesso non riusciamo a reprimere l’esclamazione «La vita non è facile»” (Freud, 2010, p.483 – 487)

Approfittando della brevità del romanzo di Mann, l’ho riletto per l’ennesima volta e ancora una volta La morte a Venezia mi ha colpito per la perfezione compositiva e stilistica. Von Ascenbach muore sulla spiaggia mentre contempla ancora la sottile figura di Tadzio che si allontana verso il mare… Un mare denso di malinconia, scuro e impietoso, certamente lontano dal mare azzurro e luminoso delle banali vacanze balneari!

Psicoterapia e scrittura: alla ricerca dell’oggetto perduto

Psicoterapia e scrittura sono due modi di gestire il disagio. Differenze e similitudini. *

C’è un piacere intrinseco nel semplice gesto dello scrivere!

E’ una piacevolezza già ravvisabile nella mera spazialità del gesto “il cui compimento rende felici, come nella vita fisica, il moto, il sudore, il bagno” (Proust, 1963, p.240).

Impregnare d’inchiostro un foglio bianco e vederlo animarsi al ritmo della mano che scrive ha indubbiamente un certo fascino. E’ un gesto che evoca, forse, la straordinaria possibilità che l’uomo ha di ricominciare, di voltare pagina e di foggiare in modo sempre nuovo il proprio destino.

Aleksej Ivanovic, Il giocatore di Dostoevskij (1992, p.136), ritrova sollievo quando, la sera, scrive delle trascorse impressioni. Aleksej scrive in completa solitudine e intorno è l’autunno, “le foglie ingialliscono sugli alberi ”, c’è tutta la malinconia delle città tedesche: “Mi è venuta di nuovo voglia di prendere la penna in mano e poi tante volte la sera non ho nulla da fare (…) E così mi metto a scrivere. Del resto tutto oggi lo posso raccontare solo in forma parziale e abbreviata: le impressioni non sono più vivide come allora…”.

Alle radici del desiderio di scrivere è spesso riscontrabile uno stato di insoddisfazione, la consapevolezza di una quotidianità spesso deludente e assai lontana dalle perfezioni sognate.

Un notevole spunto di riflessione in tal senso è costituito da una elaborazione di Freud (1907) secondo cui la scrittura creativa sarebbe il prodotto della frustrazione del desiderio che troverebbe così nella scrittura una peculiare risoluzione.

La scrittura, continua Ferrari (1994, p.8) si configurerebbe così come psichicità rappresa, cioè come il prosieguo esterno e tangibile dell’attività psichica. Questa constatazione getta un ponte tra le dinamiche sottese alla scrittura e alla psicoanalisi: la scrittura, infatti, si impernia attorno al bisogno dell’uomo di tradurre la complessa realtà interiore nei suoi “correlati oggettivi” (Eliot, 1971) così da mediare tra esigenze psichiche ed esigenze estetiche.

S. De Risio e G. Martini (1987, p.174) concordano con Freud (1907) nel sostenere che la creatività non potrebbe affatto scaturire da una condizione di pienezza che annulla il desiderio: sono – infatti – la mancanza e la frustrazione, nonché la “ricerca dell’oggetto perduto” (Freud, 1907) ad alimentare i processi creativi.

Perché mai, si interroga Ferrari (1994, p.110), l’atteggiamento degli scrittori nei confronti della psicoanalisi è gravido di curiosità e sospetto? La nevrosi e la creatività non saranno, forse, modi differenti di rispondere al medesimo disagio?

In alcuni casi le resistenze degli artisti nei confronti della psicoanalisi testimoniano un possibile, ma non scontato, intreccio tra creatività e malattia, quest’ultimo implicito nelle teorizzazioni sull’ arte come riparazione. Non si tratta affatto di omologare la creatività alla malattia o viceversa, bensì di riconoscerne una radice comune.

Le dinamiche sottese alla scrittura e alla psicoanalisi sono, infatti, profondamente diverse in quanto l’artista, attraverso la scrittura, propende alla enfatizzazione e alla conseguente legittimazione del sintomo nevrotico come condizione umana. Secondo Lejeune (1971, p.99) “lo scopo dello scrittore non sembra tanto quello di risolvere i conflitti quanto quello di fissarli, dando loro coerenza e bellezza”.

Ad uno sguardo più attento, tuttavia, anche in questo caso è constatabile una analogia di fondo: l’efficacia della terapia psicoanalitica si risolve, infatti, nella “riscrittura” del conflitto dimodoché la risoluzione di questo non è altro che la sua traslazione all’interno di una qualsivoglia teoria psicoanalitica.

Per quanto concerne la delicata questione del transfert, Enzo Morpurgo (1987, p.100) osserva come nella scrittura si alimenti progressivamente una dinamica di coppia tra l’io che scrive, assimilabile all’analizzando, e l’io che legge, in qualche modo affine all’analista.

Le similitudini tra “coppia analitica” e “coppia di scrittura” si arrestano, in primo luogo, laddove la prima consta di due persone mentre la seconda di una persona duplicata. Ecco che, se la “coppia di scrittura” propende alla moltiplicazione del senso possibile, nella “coppia analitica” l’analista si prospetta come “principio della differenza” che ripristina l’unità a discapito della frammentazione (Morpurgo, 1987, p.107).

 

*Integrazione all’articolo inserito in Biografia: Ho ceduto alla tentazione  Psicologia e letteratura al tempo di internet: un passaggio autobiografico

 

Bibliografia

Dostoevskij, M.F. (1866), Il giocatore. Milano: Garzanti, 1992.

Ferrari, S. (1994), Scrittura come riparazione. Verona: Laterza.

Freud S. Per gli scritti freudiani si fa riferimento all’edizione Boringhieri delle Opere in 12 volumi.

Il poeta e la fantasia, 1907, vol.5.

Dostoevskij e il parricidio, 1927, vol.10.

Morpurgo, E. (1987), Il segreto della camera chiusa ovvero il paradosso della scrittura. In Morpurgo, E., Egidi, V. (a cura di ), Psicoanalisi e narrazione. Ancona: Il lavoro editoriale, 1987.

Rella, F. (1981), Il silenzio e le parole. Milano: Feltrinelli, 1981.

Rovatti, P.A. (1992), L’esercizio del silenzio. Milano: Cortina, 1992.

Spence, D. P. (1982), Verità narrativa e verità storica. Firenze: Psycho, 1987.

 

La ricchezza che viene dal confronto e dal contrasto

Il diavolo sulle colline, un romanzo di Pavese che scruta nelle contraddizioni dell’uomo

Della mia infanzia non mi restava altro che l’estate. Le vie strette che sbucavano nei campi da ogni parte, di giorno e di sera, erano i cancelli della vita e del mondo”.

E’ un’emozione sempre nuova leggere Pavese, è un’immersione magica nell’aria bucolica delle colline dove il suono frastornante della quotidianità perde consistenza fino ad annullarsi. Ne I diavolo sulle colline la straordinaria descrizione del paesaggio collinare, tema ricorrente nei romanzi di Cesare Pavese, è armonicamente fuso con lo snodarsi della vicenda. Lo stile letterario di Pavese risente del decadentismo e del neo-realismo: i grandi temi letterari del decadentismo (Pavese leggeva Thomas Mann) sono affrontati con il linguaggio immediato del neorealismo, motivo per cui Pavese viene accostato dai critici anche a scrittori come Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini.

Il diavolo sulle colline è il luogo del contrasto, il luogo dove il piacere di respirare l’aria delle colline viene interrotto dal desiderio di evasione nella grande città, dove la freschezza e l’innocenza dei tre protagonisti (Pieretto, Oreste e il personaggio narrante) si scontra con la mondana sensualità di Poli, “un giovanottone (…) con gli occhi pesti e sbigottiti” che troviamo accasciato – e sotto l’effetto della cocaina – dentro la sua automobile, in una fresca notte di collina, nelle prime pagine del racconto. “Mi piace il contrasto – dice Poli – è solamente nei contrasti che uno si sente forte, superiore al proprio corpo. Senza contrasti la vita è banale”.

Oreste, Pieretto e il personaggio che narra in prima persona, girano di notte ed è proprio così che comincia il romanzo:  “Eravamo molto giovani.  Credo che in quell’anno non dormissi mai ”.

L’incontro dei tre giovani con Poli, intorno al quale si impernia l’intero racconto, avviene nel secondo capitolo. Poli è il rampollo di una tipica famiglia borghese: la camicia di seta, la bella automobile e la decisa stretta di mano sono “cose abituali ed inseparabili da lui ”.

Il confronto tra la cultura contadina e quella delle grandi città emerge ben presto ed in questo Pavese rivela le sue idee anti-borghesi; ed ecco che un brano del romanzo è incredibilmente pasoliniano: “Gente arricchita, insopportabile (…) Com’è schifosa certa gente che fa tutto coi guanti. Anche i figli e i milioni ”. Alla alterigia di Poli, Pavese contrappone la semplicità dei tre ragazzi di collina che girano nudi sotto il sole d’Agosto. La nudità dei corpi rimanda metaforicamente alla nudità psicologica: “siamo tutti nudi senza saperlo. La vita è debolezza e peccato”.

E c’è anche il contrasto delle stagioni: d’estate la campagna è arroventata, disgustosa, “un’orgia sessuale di polpe e di succhi” mentre l’inverno è “la stagione dell’anima” quando “non c’è che scendere in noi stessi e scoprire chi siamo”.

Sulla collina si può respirare anche l’aria delle grandi città, costantemente presente nei discorsi nostalgici dei protagonisti (“Che voglia di entrare in un bar , passare davanti a un cine, far notte a Torino…”)  e persino  il profumo del mare: “mi colpì subito il sentore dell’aria” rammenta il personaggio narrante “era un odore che sapeva d’automobile, di fuga, di strade costiere e di giardini sul mare”.

Immagine in evidenza di Alessandro Coppola, “Migrando”