Dalle emozioni forti alle droghe: alla ricerca di una “botta” di vita!
Guardammo il mare e poi le dissi che non capivo perché si annoiava
Cancellare la noia ad ogni costo: questo sembra essere l’imperativo che sospinge l’uomo a ricorrere ad ogni espediente di sorta che agisca sui suoi stati mentali. Ed ecco che in ogni momento della nostra vita siamo alle prese col tentativo – più o meno maldestro – di condizionare la biochimica del sistema nervoso: bere un caffè per sentirci più svegli e attenti ancorché scegliere le montagne russe – pur fra le tante attrazioni del luna park – per provare un’emozione al limite!
Da quando l’uomo ha imparato a manipolare il suo sistema nervoso lo ha fatto con ogni mezzo a disposizione: attraverso le filosofie, le arti e gli sport avventurosi e talvolta rischiosi, e non per ultimo attraverso le illusioni!
Ma non tutti dispongono di disciplina, di fervore e di immaginazione: ed ecco che, in alternativa, per le personalità più fragili e dalla incolta sensibilità il ricorso alle droghe si prospetta come una comoda e rapida scorciatoia!
Eppure nessuna sostanza psicotropa, pur avendo effetti biochimici specifici (l’oppio e l’eroina acquietano e deprimono il sistema nervoso mentre la coca lo stimola e lo eccita), provoca automaticamente talune esperienze psicologiche. Ed è così per tutto!
Prendiamo ad esempio la musica: i valzer di Chopin, che sono composizioni sublimi, possono trascinare alcuni in sensazionali esperienze emotive laddove possono dischiudere ad altri una disinteressata sonnolenza.
Sniffare della cocaina non genera alcuna risorsa artistica in chi non la possiede, né trasforma la mediocre fantasia di un soggetto cinico nel mondo immaginifico di un artista ispirato.
Ma siamo veramente sicuri che per godere della vita si debba passare attraverso le cosiddette emozioni “forti”?
C’è un romanzo di Cesare Pavese La spiaggia che invita a riflettere su come nella “normalità” della nostra vita risieda il segreto della sua straordinarietà.
La spiaggia è un romanzo brevissimo (appena 64 pagine nella edizione di Einaudi), dallo stile espositivo gradevole, semplice ed efficace nel contempo e Pavese è talmente bravo nella descrizione dei paesaggi che il lettore può davvero avere l’impressione di muoversi all’interno del romanzo.
La trama è lineare, spesso si frantuma e si risolve in certi incontri pretestuosi dei personaggi, in un torpore dove non v’è spazio per i colpi di scena.
E’ la storia di due amici, Doro e il protagonista (che narra in prima persona) che, nella prima parte del romanzo, si ritrovano a visitare le colline del paese natio.
L’infanzia è, in tutta l’opera Pavesiana, il momento privilegiato dove l’uomo esperisce inconsapevolmente il mito. La collina è, quindi, il luogo mitico dove Doro e il protagonista tornano per ricongiungersi alle origini.
La narrazione della gita in collina è densa di ricordi che il protagonista evoca con nostalgia. La stessa gita sarà argomento di conversazione al mare dove i due amici raggiungono Clelia, moglie di Doro.
In riva al mare i giorni trascorrono secondo la consuetudine della vacanza balneare, scanditi dall’ “ebbrezza” della quotidianità!
Il profumo delle notti estive traspare da certe descrizioni particolareggiate dei locali sul mare, delle corse in automobile lungo la costa, delle riflessioni alla finestra del protagonista: “… Preferivo le notti che si prendeva l’automobile e si correva la costa in cerca di fresco. Succedeva che su qualche belvedere, mentre tutti ballavano, io potevo a volte scambiare quattro chiacchiere con Doro e con Clelia … Bastava allora un bicchierino e la brezza del mare, per rimettermi in sesto”.
La bellezza del romanzo è tutta nell’atmosfera che sa ricreare piuttosto che nella descrizione introspettiva dei personaggi che sono appena accennati: “faceva tiepido quella notte, ch’era un peccato rientrare”.