L’intervento di sostegno psicologico sugli utenti adolescenti

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Definizione degli obiettivi e articolazione dell’intervento sui soggetti adolescenti

“Ah! L’egoismo infinito dell’adolescenza,
l’ottimismo studioso: com’era ricco
di fiori il mondo quell’estate!
Un coro di vetri di melodie notturne…
Infatti ben presto salteranno i nervi”
Arthur Rimbaud

Premessa

Una visione idilliaca dell’adolescenza, quale quella che emerge dai versi di Arthur Rimbaud, è possibile soltanto grazie alle imperfezioni e ai capricci della memoria nonché grazie all’apparente complessità dell’età adulta sovraccarica di impegni e responsabilità. In realtà il tempo dell’adolescenza è ben lontano dalla felicità qui descritta da Rimbaud (“com’era ricco di fiori il mondo quell’estate!”): l’approccio dell’adolescente alle relazioni e alle cose è ben più complesso e difficile, ancor più nel contesto dei tempi moderni dove tutto sembra correre in direzione del successo facile e dell’omologazione a discapito di un ascolto sensibile e vibrante delle voci individuali!

Certo, è altresì vero che – poiché ciascun individuo affronta il tempo dell’adolescenza in modo diverso – c’è pure spazio per una pubertà piuttosto tranquilla: non a caso Paola Carbone, psichiatra e psicoterapeuta, parla di “adolescenze” per marcare la particolarità di ciascun percorso adolescenziale. In prospettiva di tale molteplicità dei vissuti adolescenziali è possibile individuare tre modelli distinti di sviluppo; si tratta ovviamente di una classificazione generica che risponde alla esigenza di orientarsi nel panorama complesso delle personalità adolescenziali.

Il primo modello di sviluppo individuato da Philip Barker, psichiatra, riguarda lo sviluppo “continuo”, cioè un passaggio tranquillo e senza scosse attraverso l’adolescenza. Trattasi perlopiù di giovani la cui indipendenza progressiva viene favorita dalle famiglie nonché da relazioni durature e amichevoli coi coetanei.

Il secondo modello, definito “fluttuante” raggruppa i ragazzi che hanno mostrato turbamenti nella prima adolescenza e manifestazioni di regressione ma che, nonostante questi problemi, hanno uno sviluppo generalmente soddisfacente.

Il gruppo più difficile riunisce i giovani dalla “crescita tumultuosa”; molti di essi mostrano problemi comportamentali e variazioni d’umore nonché la tendenza ad avere relazioni conflittuali coi genitori.

L’adolescenza è un’età “di confine”, dunque! E’ il confine tra l’infanzia e la giovinezza, tra la spensieratezza e la crescente responsabilizzazione, tra la semplicità e la complessità del vivere. Questo limbo “di confine” in cui è relegata l’adolescenza si riflette altresì nella offerta dei servizi presenti sul territorio: dalle Unità Operative della Neuropsichiatria Infantile si passa inevitabilmente al Dipartimento di Salute Mentale. Ed ecco che l’adolescente (non ancora maggiorenne) sarà orientato al servizio di Neuropsichiatria Infantile seppure il ragazzo guardi già all’infanzia come a un tempo ormai decisamente lontano!

Invece il sostegno degli utenti adolescenti dovrebbe avere caratteristiche di specificità così come è specifica l’età dell’adolescenza, età “di confine” appunto! L’intervento dovrebbe guardare altresì alle famiglie dei ragazzi cosicché gli obiettivi-definiti di seguito- riguarderanno sia l’utente adolescente che i genitori di lui.

Definizione degli obiettivi

Gli obiettivi descritti di seguito sono ambiziosi per cui, compatibilmente con la durata dell’intervento, si tratterà di adattarli di volta in volta alle esigenze di ciascun utente.

Obiettivi riguardanti gli adolescenti

  • Acquisire una attitudine all’autoconsapevolezza
  • Acquisire consapevolezza dei propri bisogni
  • Acquisire la capacità di manifestarli
  • Fare un bilancio delle proprie risorse e competenze
  • Abituarsi a superare le inibizioni e i pregiudizi nella comunicazione e nelle relazioni
  • Elaborare il vero sé, oltre la diffusa tendenza alla omologazione
  • Abituarsi a gestire le risorse in funzione dei propri progetti e delle possibilità di realizzarli
  • Elaborare il rapporto con l’autorità

Obiettivi riguardanti i genitori

  • Acquisizione delle competenze atte a leggere i conflitti adolescenziali dei figli come manifestazione di loro bisogni
  • Leggere e valorizzare le diversità e le risorse particolari del figlio adolescente
  • Migliorare la comunicazione e la relazione attraverso atteggiamenti di accettazione, empatia e congruenza.

Articolazione dell’intervento

L’intervento di sostegno psicologico all’adolescente si articolerà fondamentalmente in cinque incontri.

Il modello di riferimento è quello elaborato da Tommaso Senise seppure il sottoscritto vi ha apportato delle modifiche sostanziali concernenti prevalentemente il tipo di strumenti utilizzati al fine di conseguire un quadro clinico –il più possibile esaustivo- dell’individuo.

1. Il colloquio di conoscenza

Il primo incontro sarà dedicato al colloquio di conoscenza dell’adolescente. Lo svolgimento di tale colloquio sarà semi-strutturato per cui parte di esso sarà dedicata alla inevitabile raccolta dei dati anamnestici essenziali dopodichè si procederà all’analisi della domanda che ha portato l’adolescente nello studio dello Psicoterapeuta. L’analisi della domanda dovrà essere ancor più accurata nel caso siano i genitori a rivolgersi al professionista.

2. La somministrazione del test

Il secondo incontro sarà dedicato alla somministrazione di un test proiettivo complesso. Al fine di scandagliare le problematiche adolescenziali –costituite prevalentemente dai conflitti intrapsichici e relazionali- risulta essere alquanto adeguato il Test di Appercezione Tematica (T.A.T.) di Murray. Il test di Appercezione Tematica (T.A.T.) è uno strumento che consente di accedere ai contenuti psichici di una persona attraverso l’analisi del modo in cui vengono costruite delle storie. Il test consiste di una serie di tavole che raffigurano luoghi e personaggi impegnati in una azione, a partire da queste la persona costruisce delle storie dalla cui interpretazione è possibile definirne il profilo di personalità, individuando altresì i conflitti e i nodi problematici che sono alla base di un eventuale disagio psichico del soggetto.

3. La restituzione del test

Alla restituzione del test sarà dedicato il terzo incontro. Qui si tratterà essenzialmente di lasciare libero il soggetto di riflettere su quanto emerso dal test al fine di accelerare la presa di consapevolezza dei contenuti psichici predominanti. La restituzione, oltre che verbale, potrebbe essere fatta anche per iscritto e consegnata all’adolescente, qualora si ritenesse opportuno, compatibilmente con le risorse del soggetto e con la volontà dello psicologo di sottolineare taluni aspetti psicodinamici emersi dal test.

4. Il colloquio libero

Il quarto incontro sarà centrato sulle libere riflessioni del soggetto adolescente rispetto alla restituzione. Ovviamente quest’ultimo costituisce il pretesto per appurare a quali degli spunti diagnostici emersi si rivolga spontaneamente  l’attenzione del giovane.

5. Il colloquio di sintesi. 

Il quinto incontro sarà una sintesi critica degli incontri precedenti. In esso si cercherà di sfruttare al massimo quanto emerso nella fase diagnostica per dare all’adolescente gli strumenti atti a rileggere e affrontare le problematiche in gioco.

L’articolazione sistematica e strutturata dell’intervento scaturisce dall’esigenza di individuare in breve tempo i conflitti più vistosi alla base del disagio del soggetto così da far acquisire all’adolescente – nel minor tempo possibile – gli strumenti per rileggere ed elaborare gli stessi.

Bibliografia:

Adolescenze a cura di Paola Carbone, Edizioni Magi, Roma 2005.

Psicoterapia breve d’individuazione. La metodologia di Tommaso Senise nella consultazione con l’adolescente, Aliprandi M.Teresa, Pelanda Eugenia, Senise Tommaso Editore Mimemis (collana Frontiere della psiche) Milano 2014.

Immagine in evidenza di Alessandro Coppola: “Una Finestra sull’Universo” www.alessandrocoppola.com

Destino o libertà? Ecco la soluzione per Cesare Pavese

    A proposito del determinismo psichico, concetto caro alla psicoanalisi
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Vienna: Kettenkarussell (Prater)

Il compagno di Cesare Pavese si impernia intorno alle lotte quotidiane che accompagnano l’uomo nel suo difficile cammino verso la libertà. “Chi avevo visto, conosciuto finora? In che posti ero stato? Certi giorni a pensare a quanta gente c’è a questo mondo (…) mi veniva una voglia di andarmene a spasso, di saltare sopra un treno, che quasi gridavo”.

Pablo è il protagonista-narratore, chitarrista nelle osterie della periferia torinese; questi si innamora di Linda, l’ex ragazza dell’amico Amelio (“Linda l’avevo nella pelle come il sangue”) ma è assai caro il prezzo da pagare per il tradimento amicale: Linda è una donna cinica e ambiziosa che guarda al suo interesse immediato e sospinge Pablo alla degradazione morale e alla fuga da Torino.

La seconda parte della storia si svolge a Roma, qui il momento della notte diventa mitico ed essenziale. Roma di notte è incantevole: l’aria chiara e asciutta, le piante fiorite, le viuzze piene di stelle. “Sotto le piante, in quel fresco di luna, non potevo tenermi. L’aria di Roma è proprio fatta per stare svegli”.

Il tema della notte, in Pavese, si intreccia costantemente al tema della festa: “Qui a Roma – dice Pablo – è festa anche i giorni feriali”. Ed è sempre il mito della festa a segnare l’apertura di altre opere di Pavese: “A quei tempi era sempre festa” è l’esordio de La bella estate, assai simile a quello de Il diavolo sulle colline, “Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai”.

Ma il vero tema conduttore ne Il compagno è l’intreccio tra destino e libertà seppure Pavese, da grande narratore qual è, lo tratta attraverso le storie dei personaggi parlandone espressamente soltanto in brevi passaggi del romanzo.

Siamo consciamente confusi e inconsciamente controllati: ecco come Freud riassunse la nozione di determinismo psichico, introducendo la psicoanalisi. Già, ci muoviamo nella vita di ogni giorno come se avessimo libertà di scelta e in realtà siamo molto più limitati di quanto crediamo perché non facciamo altro che mettere in atto una trama scritta nell’inconscio. Le dinamiche dell’infanzia di ciascun individuo sono cruciali giacché nei primi anni di vita il bambino acquisisce inconsciamente gli elementi che formeranno i tratti della sua futura personalità. L’esempio forse più citato in questi casi è quello dell’adulto che si vendica dei torti subiti nell’infanzia diventando egli stesso aggressore e ottenendo così il trionfo con la prevaricazione e la violenza laddove da bambino ne era stato vittima. L’inconscio dunque vince indiscutibilmente sulla celebre affermazione secondo cui ognuno sarebbe artefice del proprio destino. Scoprire la verità della storia unica e irripetibile della nostra infanzia è il modo per appropriarci dell’integrità emotiva e psichica così da trasformarci da vittime inconsapevoli del destino in individui responsabili che conoscono la propria storia e sanno convivere agevolmente con essa.

Cesare Pavese non intravede alcuna contraddizione tra destino e libertà: il destino non è altro che un ventaglio di opportunità fortuite che i personaggi pavesiani si ritrovano a vivere con consapevolezza e libertà estreme. “Tutto quel che faccio così per capriccio, lo faccio da me – considera Pablo – Ma le cose importanti, le cose che buttano a terra, queste cose succedono per conto loro”.

Pablo non ha pace, si agita smaniosamente tra la tabaccheria (dove lavora) e i locali di periferia (dove suona la chitarra), abbandona Torino per recarsi a Roma dove cambia abitudini, amici ed amori finché giunge alla presa di coscienza del suo destino: l’idea politica diventa guida e sostegno della sua vita. Il compagno è anche il romanzo dell’impegno per Cesare Pavese, la testimonianza concreta di una scelta politica.

A Roma Pablo incontra Scarpa, un giovane antifascista che ha fatto la scelta scomoda di rinunciare ai privilegi della famiglia borghese da cui proviene per militare nel partito comunista. Il concetto di “borghese”, per Pavese, prescinde dalla appartenenza ad una classe sociale e va esteso alla vigliaccheria dell’uomo che, avendo il terrore di qualsivoglia cambiamento, si rifugia nel medesimo scontato equilibrio. “Tutti siamo borghesi quando abbiamo paura. E chiudere gli occhi e non vedere il temporale, è soltanto paura, paura borghese”.

Le macchie di Rorschach: tra percezione e rappresentazione (seconda parte)

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Venezia, caffè Florian

 La rappresentazione e il contributo della fantasia

Talune risposte al test di Rorschach evidenziano inequivocabilmente la funzione rappresentazionale che influisce sulla reazione del soggetto alla tavola, assai più della stessa percezione.

Per quanto concerne le risposte di movimento, Rapaport aveva suggerito che il soggetto – essendo turbato dal disequilibrio di un dato stimolo percettivo – trascende la frammentarietà di un’interpretazione che contempla le singole aree della macchia e propende per un approccio dinamico alla complessione della stessa.

Mayman, superando Rapaport, tende a concepire le risposte di movimento come profondamente vivificate dal contributo della fantasia di ciascuno. Non è soltanto – dunque – una tensione verso la composizione dinamica della macchia a fare optare per risposte M quanto – soprattutto – la presenza di una vita fantastica.

La fantasia è preziosa salvaguardia della vita psichica, antidoto contro la vulnerabilità alla noia e allo sconforto cosicchè l’essenza della guarigione in psicoterapia è costituita appunto dal ripristino di codesta funzione.

Una risposta M dunque è uno sguardo sul mondo rappresentazionale inteso come l’insieme delle immagini inconsce di altri e di sé che abitano la vita interiore del soggetto. Il mondo rappresentazionale è costituito cioè dall’insieme di introiezioni operate dal soggetto conseguentemente a significative esperienze di relazione.

La perdita dell’oggetto amato viene “risolta” dal soggetto con l’interiorizzazione di questo al fine di garantirne la continuità nel mondo interiore: così rifletteva Freud in Lutto e melanconia; Melanie Klein estese tale concetto considerando il mondo rappresentazionale come una forza onnipresente nella vita psichica a prescindere da eventuali perdite reali.

Il mondo rappresentazionale è il fondamento della struttura psichica: Blatt, in questa direzione, ha sottolineato come le rappresentazioni comincino come esperienze squisitamente senso-motorie per divenire gradualmente rappresentazioni di Sé e del mondo più differenziate e concrete. Le primitive forme di rappresentazione sono conseguenti ai comportamenti messi in atto al fine di gratificare i bisogni; le forme intermedie si fondano su caratteristiche percettive e funzionali; le forme più elevate implicano la simbolizzazione e la concettualizzazione.

Ai primordi della vita psichica la percezione nonché la rappresentazione hanno come fondamento il corpo ancor prima che le cose e le parole: nella dottrina psicoanalitica classica la rappresentazione si fonda sull’azione (defecare, succhiare).

In psicopatologia l’impulso non abreagito viene scaricato sul corpo (nelle sindromi isteriche così come nei disturbi psicosomatici), nella pratica clinica l’acting-out è la prova della non simbolizzazione e della non elaborazione: lo psichismo, quindi, si costituisce laddove, a un certo punto, l’impulso trova risoluzione altrove che non a livello squisitamente corporeo.

La rappresentazione materna sostituisce qualcosa di più profondo che è corporeo. L’ansia di separazione è la conseguenza dell’intensità della relazione simbiotica con la madre: l’oggetto transizionale costituisce l’espediente per fare fronte a così tanta ansia e sostituire il rapporto di dipendenza fino alla costituzione della rappresentazione psichica della madre.

La cultura è l’insieme delle rappresentazioni psichiche organizzate cui una comunità umana attribuisce significazioni preferenziali a partire dai dati percettivi: ad esempio il concetto di Super-Io ha la sua scaturigine nei dati percettivi quali il padre e la società che, una volta introiettati, diventano il modello ideale.

Non c’è relazione che non si fondi sull’ordine della percezione-rappresentazione: le scaturigini della vita psichica non prescindono dalle dinamiche di cui sopra: l’estinzione dell’eccitazione degli organi sensoriali (momento della percezione) coincide sempre con la rappresentazione da intendersi come ri-presentazione ovvero come ciclicità della presentazione di qualcosa.

Bibliografia

Bohm E., Manuale di psicodiagnostica di Rorschach, Giunti 1969.

Ceruti M., Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli 1989.

Klopfer B., Davidson H., La tecnica Rorschach, Giunti 1994.

Lerner P.M., Il Rorschach: una lettura psicoanalitica, Raffaello Cortina 2000.

Passi Tognazzo D., Il metodo Rorschach, Giunti 1994.

Rapaport D., Gill M.M., Schafer R., Reattivi psicodiagnostici, Bollati Boringhieri 1981.

Winnicott D.W., Gioco e realtà, tr. it. Armando, Roma 1990.

Le macchie di Rorschach: tra percezione e rappresentazione (prima parte)

di Cosimo Campagna

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Vienna, Innere Stadt

Oltre i luoghi comuni sulla percezione

Una prima considerazione del materiale percettivo costituito dalle tavole di Rorschach potrebbe farci ritenere che si tratti di stimolo “non strutturato” in contrapposizione con l’evidente strutturazione delle cose del mondo circostante che hanno forma, colore e chiara delimitazione rispetto al contesto.

Se considerassimo la vicenda in questi termini tuttavia non avremmo tenuto conto della complessità con la quale oggi si guarda alla stessa percezione che, lungi dall’essere un processo squisitamente fotografico, deve essere messa in relazione con il soggetto ricevente che si muove in funzione di bisogni e pressioni che lo contraddistinguono e, guidando altresì le leggi della percezione, ridefiniscono le cose del mondo circostante.

Gli orizzonti intrapsichici, insomma, ridisegnano la realtà cosicché ogni percezione andrebbe vista come elaborazione della niente affatto scontata esperienza sensoriale. Gli osservatori, oltre a condividere gli stessi vincoli culturali nonché le stesse limitazioni cognitive, si caratterizzano nell’intreccio irriducibile delle storie individuali, degli eventi irripetibili, delle idiosincrasie. Secondo Heinz von Foester “quelle proprietà che si credeva facessero parte delle cose si rivelano proprietà dell’osservatore”.

E’ auspicabile, in questa direzione, la reintegrazione del sistema di significazione dell’osservatore nel processo di contemplazione delle cose; intorno a questa riformulazione dell’osservazione si sono imperniate le opere dei due pilastri della psicologia contemporanea, Piaget e Freud. I pregiudizi – coi quali approcciamo la realtà – sono le sole condizioni che ci consentono di sperimentare le cose del mondo. Si tratta di una chiusura che, paradossalmente, costituisce la precondizione per la comunicazione ed eventualmente per il cambiamento (Ceruti, 1986).

Ragionando in questi termini le macchie di Rorschach si pongono all’interno di un continuum che travalica ogni artificiosa distinzione tra percetti strutturati e non: il processo percettivo, semmai, muove maggiori tensioni verso l’organizzazione dello stimolo, facendosi più vistoso, e consentendo più agevolmente di disaminare le dinamiche messe in gioco nel complesso sistema di filtraggio della stimolazione sensoriale. L’abolizione del confine tra materiale più o meno strutturato prescinde dall’estremizzazione costituita dagli stimoli ambigui del test proiettivo: nella vita di ogni giorno, infatti, ci muoviamo, tra i riconoscimenti immediati delle cose del mondo, ad esempio in condizioni di buona luminosità e di familiarità dell’oggetto, e i riconoscimenti più faticosi che avvengono in condizioni di luce poco vantaggiose e al cospetto di oggetti poco consueti o – ancora – quando la fluidità percettiva è ostacolata da processi tossici e patologici.

Rorschach, già in occasione dell’esposizione delle basi teoriche del suo reattivo, affermava che questo si fondasse sulla percezione pur distinguendo tra una percezione intesa come squisito riconoscimento e una percezione come interpretazione includente i processi di associazione e di memoria. Trattasi di un processo di organizzazione percettiva che non differisce significativamente da quello attuato nella vita quotidiana se non che in quest’ultimo i meccanismi peculiari del processo percettivo sono oscurati dai ricordi e dalle convenzioni laddove le macchie di Rorschach evidenziano marcatamente gli aspetti percettivi e organizzativi della percezione.

La concezione di Rorschach come compito fondamentalmente percettivo è condivisa altresì da Exner che tuttavia ne considera altresì l’aspetto di problem solving che coinvolge i processi di cognizione, giudizio e selezione. La considerazione del Rorschach quale compito percettivo, seppur valevole, non può prescindere dalla funzione rappresentazionale che – integrando quella percettiva – restituisce al test tutta l’importanza in quanto metodo di valutazione della personalità.

Già Piaget aveva rilevato l’artificiosità di una distinzione tra percezione e rappresentazione e, successivamente, Blatt ha distribuito le risposte al Rorschach lungo un continuum agli estremi del quale riscontriamo – da una parte – le risposte di forma, colore e chiaroscuro, con le quali il soggetto reagisce alle caratteristiche essenzialmente percettive delle tavole, e – dall’altra – le risposte di movimento e di contenuto dettate dai sistemi di significato essenzialmente individuali.

Il Rorschach è guardato da una prospettiva rappresentazionale anche da Willock che ha concettualizzato la relazione esistente tra il soggetto e gli stimoli percettivi (le tavole del proiettivo, in questo caso) come spazio transizionale, mutuando una celebre teorizzazione di Wilfred Bion.

L’incontro del paziente con le tavole costituisce il luogo della creatività, l’area intermedia tra il mondo esterno ed interno, tra fantasia e realtà. Al Rorschach, dunque, va attribuito il valore di compito rappresentazionale e non soltanto percettivo dato che i percetti riflettono una modalità individuale di pensiero e di percezione dalla quale risalire ai principi organizzatori della stessa personalità.

Il tempo libero è una reale sospensione delle attività?

Una lezione di vita che viene dalla letteratura e dalla psicoanalisi

Berlino: Prenzlauer Berg

Chiunque si accinga a leggere i classici della letteratura si imbatte quasi subito in Siddharta, ecco perché è uno dei romanzi più letti dai ragazzi : la curiosità esistenziale nonché l’affanno del vivere dell’eroe di Hermann Hesse si sintonizzano perfettamente con le ricerche e le ansie che accompagnano ogni adolescenza. Ecco come Hesse ci presenta Siddharta: “Portava (…) il perizoma e una tonaca color terra, senza cuciture…. Tacendo stava in piedi sotto la pioggia; l’acqua gli cadeva dai capelli sulle spalle gelate.

Siddharta, figlio di un Bramino, guarda alla illusorietà dell’io, pratica la concentrazione così da raggiungere la spersonalizzazione. Ma cosa sono in fondo la sospensione del respiro e l’abbandono del corpo se non degli espedienti per fuggire all’io? Ma, poi, perché guardare al di là delle cose sensibili de “il senso e l’essenza delle cose” sono “nelle cose stesse”?

Ed ecco che Siddharta comincia a guardare ai tramonti, al mare, agli orizzonti… “Di notte vedeva ordinarsi in cielo le stelle, e la falce della luna galleggiare come una nave nell’azzurro.” E poi Siddharta si lascerà inghiottire dalla città. Ridesterà i suoi sensi ( a lungo sublimati durante il periodo mistico) e assaporerà i piaceri della voluttà, inseguirà persino il dio denaro divenendo un mercante senza scrupoli. Lo ritroviamo alla fine del cammino presso il fiume a contemplare l’acqua che scorre “sempre in ogni tempo la stessa, eppure in ogni istante un’altra.”

Masud Khan, psicoanalista pakistano allievo di Winnicott, ne I sé nascosti  ha trattato ampiamente questo stato psichico di inerzia che è “un modo di essere caratterizzato da una quiete vigile e da una consapevolezza ricettiva, desta e sensibile” (Khan,1990, p.198). La società in cui viviamo è rigidamente pragmatica e vige un’apparente attenzione per l’individuo da parte dello Stato, della sociologia e della psichiatria ma “presi da eccessivo zelo nel soccorrere e nell’aiutare l’individuo, abbiamo forse dimenticato che uno dei bisogni fondamentali è quello di disporre di uno spazio privato non integrato e di ‘restare ozioso’ ”(Khan,1990, p.199).

Delle volte ci si affanna a cercare maggiore quantità di tempo libero e si finisce per viverlo in modo inautentico ricorrendo a distrazioni che possano colmare il senso di vuoto e qualora le distrazioni non fossero sufficienti ecco che si “ricorre” al malessere e alla malattia. Gran parte dei disturbi psichici che si riscontrano nella pratica clinica è la conseguenza di conflitti nonché delle aspettative errate colle quali il soggetto si rapporta all’esperienza.

E’ un aspetto dell’esperienza di sé privato e non conflittuale quello auspicato da Masud Khan, un “restare oziosi”, essere “come un campo lasciato a maggese”. Il concetto rinvia al “terreno che è stato ben dissodato e arato, ma che non viene seminato per un anno e più” (Khan, 1990, p.198). Già, l’organizzazione del tempo libero è sempre più business, un vero e proprio giro d’affari colossale laddove “restare come un campo coltivato a maggese è una dimostrazione della capacità di una persona di essere spontanea quando è sola con se stessa” (Khan, 1990, p.202).

Masud Khan ed Hermann Hesse ci danno una lezione di vita. Psicoanalisi e letteratura, seppur percorrendo diversi stili espositivi e di pensiero ci introducono un concetto veramente prezioso che, se coltivato ogni giorno, ci renderebbe di certo più felici!

Purtuttavia, rileggendo Siddharta, mi son chiesto se non avessi avuto di meglio da fare: già, lo stile aulico e curato mi è sembrato poco sintonico con l’inasprimento che gli anni procurano. O forse ancora deve essere subentrata in me l’invidia irritante con cui si guarda ai tumulti della adolescenza e li si raffronta con il grigiore stagnante in cui talvolta affondano le nostre giornate!

Il narcisismo e l’incapacità di amare nel romanzo di Oscar Wilde

Il ritratto di Dorian Gray, un falso eroe dei nostri tempi

di Cosimo Campagna

Alessandro Coppola: “Odore di papaveri” (Il mago di Oz, 2013) http://www.alessandrocoppola.com/gallery/

“Che cosa triste! Io diverrò vecchio, brutto, ignobile e questa pittura rimarrà sempre giovane (…) Oh, se potesse avvenire il contrario! Se potessi, io, restar sempre giovane e invecchiasse invece la pittura! Per questo sarei pronto a dare qualsiasi cosa, si (…) Darei la mia stessa anima!”

Così esclama Dorian Gray mentre osserva il dipinto che lo ritrae giovane e bello: Oscar Wilde lo descrive come un giovane dalle labbra rosse e gli occhi azzurri e i capelli biondi e ricci… “qualche cosa nel suo volto ispirava tutto il candore della gioventù, e della gioventù tutta l’appassionata purezza”.
E’ attualissimo Il ritratto di Dorian Gray, romanzo dei nostri tempi dove il culto dell’immagine si rivela onnipresente!
Il tessuto culturale in cui siamo immersi riserva uno spazio esclusivo alla giovinezza mentre il mondo dei vecchi appare sempre più marginale rispetto ad una società che sembra essersene dimenticata.
Il romanzo di Oscar Wilde è incredibilmente ricco di citazioni che inneggiano alla bellezza, virtù “più alta del genio perché non richiede spiegazioni”.
La bellezza, scrive Oscar Wilde, “è una delle grandi cose al mondo, come la luce del sole, o la primavera, o il riflesso nell’acqua cupa di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna. Su di essa non si può discutere: ha un divino diritto alla sovranità e rende principi coloro che la possiedono”.
Dunque la bellezza vera non è compatibile con l’espressione intellettuale perché questa è “una sorta di eccedenza che distrugge l’armonia di un volto”.

Dorian Gray, all’inizio del romanzo, è soltanto il bellissimo modello che posa nello studio di Basilio Hallward, il pittore che eseguirà il ritratto del giovane.
Lo sconvolgimento nella vita di Dorian avviene quando questi incontra Lord Enrico Wotton, uomo dissoluto che introduce il giovane ad una vita fatta di mondanità e scapestratezza.
Davanti al suo ritratto Dorian esprime il folle desiderio che il dipinto possa invecchiare al suo posto in cambio della sua stessa anima. Ed è in questo sublime passaggio letterario che Oscar Wilde coglie la quintessenza della grandiosità narcisistica che è – giustappunto – un’idea irrealistica e idealizzata di sé che nasconde in realtà un’autostima fragilissima soggetta a continue disillusioni e che per questo ha sempre bisogno di rinforzi esterni.
Ed ecco che il ritratto recherà progressivamente i segni della dissolutezza di Dorian mentre questi andrà per il mondo con il volto incredibilmente giovane, in balìa di una ricerca ossessiva di potere e di bellezza che attanaglia ogni narcisista.
Si, la vita aveva deciso per lui: la vita e la sua infinita curiosità di vita. Eterna giovinezza, passioni senza termine, piaceri sottili e segreti, sfrenate gioie e sfrenati peccati: egli doveva avere tutto ciò
Il solo modo per liberarsi di una pulsione è quello di abbandonarvisi e Dorian si lascia trasportare dal fiume dei suoi desideri certo che i sensi, non meno dell’anima, sapranno disvelargli i segreti dello spirito.
Noi siamo puniti dalle inibizioni che ci imponiamo, ogni impulso che cerchiamo di soffocare fermenta nella nostra anima e ci intossica. Il corpo pecca, ma una volta che ha peccato ha superato la sua colpa perché l’azione è una forma di purificazione

L’incapacità di amare di Dorian si palesa nella difficoltà ad empatizzare con i sentimenti e i bisogni di coloro che incontra e nella ricerca convulsa del piacere che è però soltanto un modo maldestro di anestetizzare il dolore e tentare invano di colmare un vuoto immane!
Soltanto nell’ultimo capitolo Dorian Gray si ritrova a maledire la bellezza e la gioventù tanto invocate ma altresì causa della sua rovina.

Una nuova vita! Ecco verso cosa propende Dorian Gray alla fine del romanzo ma per poter rinascere dovrà distruggere il ritratto che nel frattanto si è progressivamente macchiato delle sue colpe. E’ questo il brano forse più simbolico di tutto il romanzo che racchiude il concetto di falso sé – tanto caro alla psicoanalisi – ovvero di una personalità che non è più a contatto con gli elementi di genuinità e autenticità.
Quanti sono i Dorian Gray che attraversano le strade delle nostre città? Quanti vagano alla ricerca spasmodica di qualcosa che possa accendere la loro fragile emotività?
E intanto la giovinezza si dilegua, si prende beffa di loro perché “la tragedia della vecchiaia non è il diventar vecchi ma il rimaner giovani!

Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Rizzoli, Milano

L’importanza delle esperienze affettive raccontata da Dacia Maraini

I temi della nostalgia e del confronto generazionale in una intensa scrittura

di Cosimo Campagna

"L'angelo del focolare" di Michelangelo Fanara - olio su tela
“L’angelo del focolare” di Michelangelo Fanara – olio su tela

Una donna di cinquant’anni e una bambina di sei (…) generalmente si considerano estranee e lontanissime come due comete lanciate in due cieli diversi che non si conoscono e sono destinate a non incontrarsi mai.”

Eppure, in Dolce per sé, Dacia Maraini riesce ad avvicinare questi due mondi lontanissimi. La narratrice, Vera ( inequivocabilmente un nome dietro cui la stessa Maraini intende trincerarsi) si rivolge ad una bambina di nome Flavia scrivendole delle lettere che, in sintesi, costituiscono l’ intero romanzo.
E’ un romanzo autobiografico dove Dacia Maraini ripercorre con nostalgia e dolcezza i sentieri della memoria. E come non lasciarsi intrappolare nel labirinto di memorie che la Maraini rievoca con uno stile straordinario?

Eppure, Flavia, non riesco a mettere via queste fotografie che mi ricordano te, tuo zio Edoardo e quei giorni di perfetta coesione. Come e quando è cominciato il guasto, la distruzione? Non lo so. Non lo saprò mai.”
E’ una nostalgia che si tinge quasi di strazio quella che traspare dalle pagine di Dolce per sè, è la legge del tempo che emerge in modo spietato: la fine di un amore trova una splendida metafora nella tempesta, di quelle che devastano le coste americane e si lasciano dietro “alberi divelti, tetti scoperchiati, auto rovesciate, terreni allagati.” E tuttavia la scrittrice riesce a raccontare del tempo perduto con una delicatezza che incanta chiunque si accinga a leggere un suo romanzo.

Alcuni temi ritornano, dopo essere stati trattati dall’autrice nelle opere precedenti: già in Bagheria Dacia Maraini raccontava della Sicilia, dei suoi profumi e dell’ inevitabile scempio provocato dai suoi stessi abitanti.

Io spero che un giorno, Flavia, tu possa andare a visitare le ville barocche di Bagheria, che sono tra le cose più belle della Sicilia dopo i templi greci: sempre che i bagherioti, così poco amanti di se stessi e della propria storia non le abbiano definitivamente distrutte.”
C’è amarezza nelle parole della scrittrice, c’è la contemplazione nostalgica di un mondo che è andato irrimediabilmente perduto: “la costa dell’Aspra era un bijou (…) ora è una schifezza tutta muri e cemento. Il mare più pulito e limpido del mondo lo hanno trasformato in un immondezzaio.”

Dolce per sé è forse il primo libro in cui Dacia Maraini racconta lungamente di sé; Un clandestino a bordo, Bagheria, Voci, pur contenendo altresì spunti autobiografici, si erano contraddistinti pure per un certo imbarazzo cosicché la scrittrice, con espedienti stilistici, riusciva a focalizzare precipuamente su altri temi narrativi.
In quest’ultima sua opera la Maraini si denuda più che mai, racconta della irritazione che certe sue abitudini provocavano nel suo ex compagno, peraltro zio di Flavia ( la bambina cui si rivolge in tutto il romanzo), quali la lettura de L’unità, il fatto che non andasse a messa la domenica, che non la divertissero le barzellette sugli ebrei, l’insensibilità rispetto alla potenza delle macchine di Formula uno, la convinzione che il rapporto fra due persone dello stesso sesso fosse lecito e normale e che il matrimonio non fosse il solo fine degli affetti.

Flavia è senz’altro la bambina che c’è in Vera (alias Dacia Maraini) e la stessa autrice riflette in questi termini alla fine del romanzo: ” Non so nemmeno se quella bambina sia semplicemente una parte di me che si affaccia timidamente ai bordi della memoria di un corpo che invecchia.”

Le relazioni interpersonali e la costruzione dell’identità individuale

L’importanza delle relazioni familiari e sociali in un capolavoro di Marguerite Yourcenar

di Cosimo Campagna

"Eleonora di Toledo" di Guido Quadrio - olio su tela
“Eleonora di Toledo” di Guido Quadrio – olio su tela. Fotografia di Daniele Rotolo

E’ stata un’emozione immensa leggere i romanzi di Marguerite Yourcenar. Quoi? L’éternité, più di ogni altro, mi ha fatto apprezzare la scrittrice belga: è un’opera straordinaria, una saga familiare estremamente affascinante, un susseguirsi di ricordi e divagazioni che arricchisce il pensiero e disseta la fantasia.  Il titolo del romanzo,Quoi? L’éternitè (Cosa? L’eternità ), è stato mutuato da un verso di una composizione di Arthur Rimbaud, poeta molto caro alla scrittrice: l’eternità, per la Youcenar, è da ricercarsi nel complesso intrico familiare, nelle evanescenze della memoria che vive e cambia, nelle risonanze di sentimenti provati nei tempi andati.

La scrittura della Yourcenar è ricca di contrasti intriganti: su una struttura compositiva classicheggiante – la struttura del romanzo risente dell’epica ottocentesca – spiccano contenuti di una modernità strabiliante. Le ansie e le passioni dell’uomo moderno sono raccontate con un linguaggio ottocentesco in cui prevalgono le descrizioni minuziose delle vicissitudini familiari, dei costumi e delle abitudini di un’epoca, dei tumulti di vita e di sentimento dei personaggi del romanzo.

La Yourcenar, seguendo il filo dei ricordi, traccia un profilo del padre, Michel; racconta di quest’uomo senza le riserve e i pudori che spesso inquinano la visione che i figli hanno dei genitori. “Michel è solo. Veramente lo è sempre stato.” Così inizia il lungo racconto del padre e, insieme a questo, una lunga descrizione di quella che è stata l’Europa “fin du siecle”: le prime automobili percorrevano le strade con una libertà estrema che “sarà soppiantata dal rigore claustrofobico delle autostrade“.

La vita di Michel è un continuo tumulto: Fernande, la prima moglie morirà giovanissima, Jeanne (peraltro grande amica della defunta) diverrà il grande amore dell’uomo. L’intreccio che governa la vita di Michel nonché quella dei suoi familiari e ancora quella parallela, e ugualmente centrale in seno al romanzo, di Jeanne e di Egon (sposati felicemente prima dell’incontro della prima con Michel), è talmente fitto che il lettore rischia di perdervisi ma, in ogni caso, resta agevole la possibilità di guardare agli stralci di sentimenti – descritti sapientemente dalla scrittrice – che emergono luccicanti dall’intrico della trama.

C’è il fremito degli amori che nascono, il rumore incessante delle passioni senza fine: “l’amore per Egon riempie Jeanne come il rumore delle onde una conchiglia, e risuonerà in lei fino a quando la conchiglia si sarà infranta (…) lui le chiede timidamente se potrebbe vederla ogni giorno e uscire con lei almeno una volta dalla città, per percorrere insieme in libertà i campi e le rive che entrambi amano, e lei si accorge che chiedendolo gli tremano le labbra.”

Gli sfondi paesaggistici sono incantevoli: le spiagge bianche del Nord, i misteri dei bassifondi parigini, l’incanto della costa Azzurra e persino Roma (visitata da Egon e Jeanne) con i giardini di Villa Borghese, gli splendori di San Pietro, i lunghi silenzi di Villa Adriana.

La Yourcenar racconta inoltre della sua passione per i viaggi, della nascita della sua predilezione per la lettura come di “un miracolo banale, progressivo, del quale ci si rende conto soltanto in seguito“. Eccezionale la descrizione delle prime percezioni rispetto alla propria corporeità, descrizione che rasenta un vero e proprio trattato di psicologia dello sviluppo: “Verso i due o tre anni ricordo di essere stata sollevata (…) e coperta su tutto il corpo di caldi baci che ne disegnavano i contorni a me sconosciuti, dandomi per così dire una forma.”

Insomma, Quoi l’éternité è un grande romanzo che ci consente ampie scorribande attraverso i sentieri della nostra storia personale facendoci riflettere su come il destino venga, in fondo, scandito dai sentimenti che ci accompagnano nel corso della vita e che determinano, più di ogni altra cosa, le nostre scelte e le circostanze: “Dietro ciascuna delle nostre predilezioni per un certo genere di vita c’è sempre una o più persone. Non si cavalca a lungo soli nel deserto; non si naviga a lungo soli nel mare.

 

Il naufragio del Sé

Tracce di Psicologia Dinamica nei romanzi di Fedor Dostoevskij*

Terza e ultima parte

Il paesaggio del naufragio

In Dostoevskij l’evocazione del paesaggio è pesantemente embricata alle vicissitudini dei personaggi: la tempesta su Pietroburgo – ne Il sosia – non è scindibile dalla frantumazione dell’equilibrio psichico di Goljàdkin, conseguentemente all’incontro col suo sosia. Lo smarrimento del signor Goljàdkin per le strade di una Pietroburgo umida e piovosa è in realtà uno smarrimento dentro di sé.

In Dostoevskij il paesaggio è quasi immerso nel buio o comunque nella luce crepuscolare e lo scrittore sembra evocarlo solo quando questo prelude ad una svolta inquietante nella storia dei suoi personaggi.

Ne L’idiota la descrizione di una Pietroburgo avvolta nelle tenebre anticipa il dramma del principe Myskin che, di lì a poco, avrebbe scoperto il cadavere di Nastasja Filippovna, la donna da lui tanto amata.

Ne Il giocatore (tr.it.1992, p.161) il sé di Aleksej Ivanovic, schiacciato dalla frenesia del gioco d’azzardo, ha i colori della strada che il giocatore percorre, di notte, per recarsi al casinò: «Il viale era così buio che non riuscivo nemmeno a vedere le mie mani…».

Dostoevskij sfugge ai colori vividi rifugiandosi nelle tinte scure laddove si spengono i tumulti del gran mondo e si dispiegano i sentieri del mondo interno. Il cielo plumbeo di Pietroburgo si insinua negli orizzonti interni dei personaggi dostoevskijani che quasi provano sentimenti di stranietudine al cospetto di una maggiore luminosità del paesaggio. Ne L’idiota il principe Myskin si ricorda di una giornata di sole in Svizzera, vissuta con profonda inquietudine.

Davanti a sé vedeva il cielo limpidamente azzurro, sotto di sé il lago, intorno l’orizzonte luminoso, senza principio né fine. Ed egli contemplava tutto ciò con l’anima torturata. Ora si ricordò come tendeva le braccia verso quell’azzurro risplendente e lontano e piangeva. Si sentiva estraneo a quella magnificenza e ne soffriva. “(Dostoevskij, tr.it. 1986, p. )

Il senso di smarrimento che aleggia in ogni opera di Dostoevskij non tollera che il sole possa rischiarare le tenebre del vissuto abbandonico dei personaggi dostoevskijani i quali si muovono disinvoltamente dentro atmosfere scure, preferiscono l’ora del crepuscolo, «quando il freddo comincia a pungere e si accendono per le strade i fanali a gas…» (Dostoevskij, tr.it.1986, p.497).

Non c’è dubbio: Dostoevskij spegne sapientemente i colori, sfuma la luminosità del paesaggio, insomma predilige il buio. Il paesaggio funge da cartina tornasole perché anche l’anima è oscura. Leibniz è dalla parte di Dostoevskij: «Lo spirito è oscuro, il fondo dello spirito è scuro». E Gilles Deleuze (tr.it.1990, p.133) riprende il pensiero di Leibniz soffermandosi sul concetto secondo cui «il chiaro esce dall’oscuro e non smette di ritornarvi».

Leibniz concepiva l’anima come una monade, senza porte né finestre, che trae ogni percezione chiara dal suo fondo oscuro. Ciascuna monade esprime oscuramente e confusivamente il mondo intero poiché essa è finita mentre il mondo è infinito. Il mondo esiste solo nella misura in cui questo viene concepito all’interno delle monadi. Esso non ha consistenza al di fuori delle monadi ed esiste soltanto dentro brevi percezioni allucinatorie, dentro «uno sciabordio, un rumore, una bruma, una danza di pulviscoli impalpabili» (Deleuze, tr.it.1990, p.129).

La percezione del paesaggio in Dostoevskij prescinde decisamente da ogni meccanismo fisico, è a tratti allucinatoria ovvero il prodotto di un processo esclusivamente psichico.  Il paesaggio non ha consistenza al di fuori delle vicende dei personaggi, non prescinde mai dall’umore di essi.

Di rado il cielo si rischiara nei romanzi di Dostoevskij e in ogni caso questo accade parallelamente a una svolta felice nella storia dei personaggi: “Uscito in strada, il signor Goljàdkin  si sentì come in paradiso, tanto che provò persino il desiderio di fare un giretto e di passeggiare per la Prospettiva Nevskij. (…) Una svolta davvero inaspettata in tuta la faccenda. E anche il tempo si è rasserenato…“(Dostoevskij, Il sosia, trad.it. 1991).

Quasi sempre, invece, il paesaggio è immerso nelle tenebre e si impone con violenza ogniqualvolta le storie dei personaggi propendono verso svolte inquietanti: il cielo nuvoloso, la città di sera, la notte preludono – infatti – alla consumazione di un dramma!

Non è cambiato molto dalla prima volta che ho letto Delitto e castigo: forse le illusioni nuove hanno preso il posto di quelle vecchie. Dopo trent’anni sto rileggendolo ancora una volta e sono anche stavolta, come Raskòlnikov, derelitto e naufrago!

*vedi approfondimento: I classici della letteratura sono lezioni di Psicologia Dinamica   I grandi scrittori hanno intuito le elaborazioni di Freud

Bibliografia

Cantoni, R. (1948), La crisi dell’uomo. Milano: Mondadori.

Deleuze, G. (1988), La piega, Leibniz e il Barocco. Torino: Einaudi, 1990.

Dostoevskij, M. F. (1868), Delitto e castigo. Catania: Paoline, 1963.

Dostoevskij, M.F. (1880), I fratelli Karamazov. Torino: Einaudi, 1962.

Dostoevskij, M.F. (1866), Il giocatore. Milano: Garzanti, 1992.

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Dostoevskij, M.F. (1870), L’eterno marito. Verona: Demetra, 1995.

Dostoevskij, M.F. (1868), L’idiota. Milano: Garzanti, 1986.

Fachinelli, E. (1989), La mente estatica. Milano: Adelphi.

Ferrari, S. (1994), Scrittura come riparazione. Verona: Laterza.

Freud S. Per gli scritti freudiani si fa riferimento all’edizione Boringhieri delle Opere in 12 volumi.

Il poeta e la fantasia, 1907, vol.5.

Caducità, 1915, vol.8.

Il perturbante. In L’io e l’es e altri scritti, 1919, vol.9.

Inibizione, sintomo e angoscia, 1925, vol.10.

La negazione, 1925, vol.10.

Dostoevskij e il parricidio, 1927, vol.10.

Il disagio della civiltà, 1929, vol.10.

Grossman, L. (1961), Dostoevskij artista. Milano: Bompiani.

Hall, C.S., Lindzey, G. (1966), Teorie della personalità. Torino: Boringhieri, 1989.

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Jervis, G. (1984), Presenza e identità. Milano: Garzanti,1984.

Jervis, G., Significato e malintesi del concetto di sé, in Ammaniti, M. (a cura di), La nascita del Sé. Roma – Bari: Laterza, 1991.

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Lo Verso, G. et al. (1994), Le relazioni soggettuali. Torino: Bollati Boringhieri, 1994.

Mann, T. (1930), La montagna incantata. Milano: Dall’Oglio, 1988.

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Morpurgo, E. (1987), Il segreto della camera chiusa ovvero il paradosso della scrittura. In Morpurgo, E., Egidi, V. (a cura di ), Psicoanalisi e narrazione. Ancona: Il lavoro editoriale, 1987.

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Scharfetter, C. (1992), Psicopatologia generale (un’introduzione). Milano: Feltrinelli, 1992.

Spence, D. P. (1982), Verità narrativa e verità storica. Firenze: Psycho, 1987.

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Vegetti Finzi, S. (1986), Storia della psicoanalisi, Oscar Mondadori, Milano 1992.

Il naufragio del Sé

Tracce di Psicologia Dinamica nei romanzi di Fedor Dostoevskij*

Seconda parte

«Non tutti i naufragi vengono per nuocere»

«Non tutti i naufragi vengono per nuocere» dunque! Già, talvolta il naufragio si configura come indispensabile per disvelare dentro di sé profumi e suoni mai percepiti prima. In questo Dostoevskij è senza dubbio esistenzialista specialmente quando afferma che la rivelazione del senso ultimo della realtà si dispiega in attimi misteriosi e pericolosi, in circostanze psichiche eccezionali, in cui la coscienza si allontana dal mondo spazio-temporale e riceve quasi in dono delle visioni.

L’«idiota», ovvero il principe Myskin, intravvede «la bellezza e la preghiera» nonché «un’alta sintesi della vita», proprio quando sta per essere colto dagli accessi furiosi della epilessia, un attimo prima di perdere la coscienza e di stramazzare al suolo.

Malattia e conoscenza costituiscono un binomio che non ritroviamo esclusivamente nei romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un binomio caro al romanticismo e, in tempi più recenti, rivissuto in forma grandiosa nell’opera di Thomas Mann. Ne La montagna incantata i borghesi di Lubecca misconoscono la vita dello spirito perché, grazie alla loro filosofia sana e normale, si sono ambientati perfettamente alla vita sociale; vi sarebbe, insomma, una sorta di sapere privilegiato che gli uomini completamente armonizzati con l’ambiente, non conoscono. Il precoce e ripetuto contatto con la morte compenetra la nostra psiche di un elemento sensibile, suscettibile di fronte alle crudezze della spensierata vita mondana, diciamo addirittura, di fronte al suo cinismo. (Mann, tr. it. 1930, p.221). Thomas Mann osserva, dunque, come l’unico modo sano e nobile di concepire la morte consista nel considerarla quale parte integrante della vita.

Secondo Stefano Ferrari (1994, p.203) il desiderio di morire, così tanto decantato dai poeti, diventa un modo per controllare il trauma della morte che, divenendo l’oggetto del desiderio, viene addirittura erotizzata. La sublimazione della morte traspare altresì da una dolcissima poesia che Pier Paolo Pasolini scrisse negli anni della sua giovinezza. La poesia è inclusa ne La meglio gioventù, raccolta di poesie giovanili da cui traspare tutto il profumo della campagna friulana dove Pasolini si recava in vacanza con la famiglia.

“In una città /Trieste o Udine/ per un viale di tigli/ quando in primavera/ le foglie mutano colore/ io cadrò morto/ sotto il sole che arde/ biondo e alto/ e chiuderò le ciglia/ lasciando il cielo/ al suo splendore” (Pasolini, 1975, p.65).

In Dostoevskij l’evocazione della morte è costante: l’«idiota» ovvero Myskin, in un salotto di Pietroburgo, rievoca le vicissitudini di un condannato a morte, poco prima della esecuzione. La prossimità della morte provoca una dilatazione temporale cosicché il condannato al cospetto degli ultimi minuti, ha l’impressione di dover vivere uno spazio di tempo infinito, «un immenso tesoro» (Cantoni, 1948, p.38).

In quelle circostanze più che ami il tempo va vissuto intensamente ed è così che il condannato a morte progetta di destinare due minuti all’ultimo addio ai suoi compagni, di assegnarne altri due alle proprie meditazioni intime e di impiegare l’ultimo minuto per ben guardarsi intorno l’ultima volta. In lui c’era, in quei momenti, questo continuo pensiero.

Se non dovessi morire! Se la vita potesse continuare, che eternità mi si aprirebbe innanzi! E tutto ciò sarebbe allora mio! Trasformerei ogni momento in un secolo, non perdere nulla, ogni istante sarebbe calcolato, non spenderei un attimo inutilmente! (Dostoevskij, tr. it.1986, p.75).

Il tempo, quando stiamo per esserne privati, ci rivela la sua sostanza preziosa nonché «il tessuto incomparabile di cui è composto»(Cantoni, 1948, p.38).

*vedi approfondimento: I classici della letteratura sono lezioni di Psicologia Dinamica   I grandi scrittori hanno intuito le elaborazioni di Freud