Quando il paziente ha bisogno del sintomo

La malattia psichica nella maggior parte dei casi è una vera e propria strategia di elaborazione patologica di un conflitto*

Edvard Munch: “La fanciulla malata”. Olio su tela:119,5×118,5 cm. Galleria nazionale, Oslo

La malattia non è sempre subita passivamente e, in modo particolare quando si tratta di patologie psichiche, si configura come una vera e propria strategia che viene agita attivamente – anche se rigida e inadeguata – e viene impiegata per risolvere un conflitto tra istanze psicologiche inconciliabili.

Quando il sintomo è una strategia (perlopiù inconscia) di elaborazione patologica del conflitto il paziente si aggrappa al suo sintomo.  Ad esempio un soggetto che soffre per un senso di inferiorità fisica o psichica e che intraprende una psicoterapia può giungere a “scoprire” che sin dall’infanzia la madre non si occupava di lui o che il padre lo trattava con disprezzo e tirannia. In un primo momento il terapeuta ipotizza un disturbo di regolazione dell’autostima riconducibile appunto al fatto che il paziente non è stato adeguatamente incoraggiato e “rispecchiato” dalle figure genitoriali fin dalla prima infanzia. L’autosvalutazione del paziente invece può persistere e opporsi agli sforzi del terapeuta di sostenerlo e di renderlo maggiormente autonomo nelle scelte: il paziente ha imparato fin da piccolo che sottomettersi all’oggetto gli consentiva di conservare una parte dell’affetto e dell’interesse da parte dei genitori ed in questa direzione ha strutturato marcatamente il senso di svalutazione di sé. Il paziente ha bisogno del sintomo ed è per questo che tende a resistere alle occasioni di risoluzione dello stesso!

Solo la scoperta della contrapposizione intrapsichica tra il desiderio di sviluppo di un Sé libero e autonomo e la nostalgia di essere amato e sostenuto può dare avvio alla ricerca di soluzioni alternative e di evitare di ripiegare rigidamente su una soltanto delle due posizioni contrapposte.

Nei trattamenti psicoterapeutici, così come nelle supervisioni, è indispensabile porsi sempre l’interrogativo: ‹‹A cosa serve un dato sintomo o un dato stile di comportamento? Quale utilità potrebbe avere per il paziente?››

In certi casi infatti solo interrogandosi sul significato che il sintomo ha per il paziente e sui benefici apportati paradossalmente da esso si riesce ad avere una comprensione soddisfacente di una dinamica psicologica che altrimenti sarebbe potuta sembrare complessa e addirittura oscura!

Già, dalla malattia se ne può trarre un vero e proprio beneficio. Un’altra situazione ricorrente è ad esempio quella che vede un soggetto avvinghiato morbosamente al proprio ideale dell’io ovvero all’idea di perfezione che auspica per sé: talvolta si arriva a strutturare un vero e proprio falso sé diametralmente opposto all’autenticità dell’individuo che viene persino denegata pur di affermare la propria idea di grandiosità oppure – in ogni caso – la personalità auspicata!

Il soggetto soffre inevitabilmente per essersi allontanato dalle proprie quote di genuinità e veridicità, si accorge di recitare un personaggio che non gli appartiene eppure sembra non voler rinunciare a vivere secondo il proprio ideale dell’io anche a costo di una sofferenza psichica che può arrivare a essere insostenibile!

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*Integrazione Clinica all’articolo inserito in “Letture”: Dalla tubercolosi alla nevrosi: tutti i “vantaggi” della malattia

La lettura sequenziale del T.A.T.

Per una diagnosi adeguata ed esaustiva dei processi psichici

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Alex Katz,Islesboro ferryslip. V.Kandinskij,Una figura fluttuante. Foto:Daniele Rotolo
Si calpestano le stesse carreggiate, 

si urta negli stessi spigoli degli stessi corridoi. 

Si ricade nella stessa casella del gioco dell’oca 

che si chiama ‘prigione’!”

Marguerite Yourcenar 

Mi piace guardare i pazienti impegnati nel compito del T.A.T.

C’è una sacralità indiscutibile nel momento in cui la tavola viene posta di fronte al paziente e questi comincia a reagire alla stimolazione esterna nonché al proprio mondo interno ovvero all’incontro tra esterno e interno. Quel momento coincide con il luogo della creatività e della donazione di senso, con la scoperta della “familiarità nel non familiare” (Milner, 1952). Nella pratica clinica ho potuto constatare più volte la preziosità del Test di Appercezione Tematica: non è raro avvedersi che una “scoperta” in seno al percorso psicoterapico brillava già alquanto luminosa dentro le narrazioni costruite dal paziente al cospetto delle tavole del T.A.T.

Il test di Appercezione Tematica (T.A.T.) è un reattivo che consente di accedere ai contenuti mentali di una persona attraverso una analisi del modo in cui vengono costruite delle storie a partire da stimoli che raffigurano luoghi e personaggi impegnati in un’azione. Purtuttavia, oltre ad essere stato affascinato dalle potenzialità del Thematic Apperception Test, ho più volte subito la delusione rispetto alle griglie interpretative disponibili: nella letteratura italiana sono assai poche le pubblicazioni in proposito e mancano lavori che presentino il test nella sua complessità, che lo inseriscano in un quadro teorico definito, fornendo indicazioni puntuali rispetto ai criteri di interpretazione. Così il Test di Appercezione Tematica viene spesso interpretato in modo intuitivo, accontentandosi di “estrarre dalle storie elaborate dal soggetto le possibili analogie con la sua storia reale e con i suoi problemi”, errore che costituisce – come sottolinea Anzieu (1961) – uno dei maggiori rischi nell’utilizzo del T.A.T.

Ciascuna tavola dovrebbe essere considerata invece in relazione a quanto accaduto alla tavola precedente. Nessuna sequenza della storia dovrebbe essere dissociata dalla precedente o dalla seguente ma dovrà essere valutata sulla base della sua capacità di dissolvere la tensione o, al contrario, del rinforzo dello sforzo difensivo che mobilita. Lettura sequenziale, dunque, unica accettabile poiché il T.A.T., come tutti i test d’altra parte, e come ogni situazione umana, mette in luce un movimento e deve quindi, innanzitutto, essere compreso nella sua dinamica. Il T.A.T. è lo strumento idoneo a fornire indicazioni sul funzionamento dell’individuo nelle sue fluttuazioni. Questa capacità di cogliere un processo vitale, permette allo psicologo che utilizza il T.A.T. di evitare un atteggiamento classificatorio e rigido.

Tale lettura sequenziale del T.A.T. è stata presa in considerazione solo di recente in quanto il test, nella sua genesi, è stato pensato e interpretato in chiave squisitamente freudiana e psicoanalitica. Se poniamo a fondamento dell’indagine psicologica l’assioma freudiano per cui tutto ciò che di importante doveva accadere nella vita dell’uomo è già avvenuto nei primi tre anni di vita, siamo poi costretti, per necessità di coerenza, a ritenere che quanto affiora nelle narrazioni del T.A.T. sia frutto della proiezione di “temi” e quindi risultante dalla combinazione di “bisogni” o “pulsioni” e influenze ambientali e che emerga sotto la spinta dello stimolo cui viene attribuito il potere di evocare il tema. La concezione di Murray fa riferimento alla teoria psicoanalitica e in particolare alla prima topica. I contenuti delle storie sono visti come espressione del mondo pulsionale. L’ipotesi alla base dell’interpretazione è che il soggetto attribuisce all’ “eroe” e agli altri personaggi i sentimenti, le tendenze, i bisogni che fanno parte del suo vissuto e che possono manifestarsi nel suo comportamento. Trattasi di una tecnica interpretativa che si basa fondamentalmente sui contenuti della storia. “Tale visione ha però il difetto di non considerare la complessità del mondo interno e di ipotizzarne il funzionamento come operante per relazioni di tipo causa-effetto o comunque ad andamento lineare, ciò si scontra con gli assunti alla base di innumerevoli paradigmi psicologici moderni o psicoterapeutici che, ritenendo irrinunciabile l’opzione fenomenologica, considerano il comportamento umano intimamente connesso alle circostanze interiori ed esterne che ne costituiscono il ‘qui e ora’! ”(Cuffaro, 1998, p.114)

Il sistema di siglatura del Thematic Apperception Test elaborato da Maurizio Cuffaro (1998) si è prospettato al mio orizzonte come una rivelazione, una possibilità originale e – nel contempo – straordinariamente sistematica di avanzare ipotesi diagnostiche a partire dalle narrazioni dei pazienti in trattamento. Per il complesso ed esaustivo sistema di siglatura si rinvia al prezioso testo dello stesso autore, Il T.A.T. nella diagnosi psicologica e clinica (edito da Franco Angeli). La presente riflessione è dedicata in modo particolare a uno specifico aspetto della siglatura elaborata da Cuffaro (1918) ovvero quello riguardante i percorsi relazionali interni come risultano dalla successione delle storie che il paziente ha costruito alle varie tavole. Ciascuna storia può essere sintetizzata in una frase che ne contenga il senso. Tale frase dovrebbe rappresentare la risultante esaustiva del complesso processo ideativo, organizzativo, difensivo nonché espressivo che il soggetto ha realizzato a partire dall’immagine percepita. Cuffaro (1998) afferrma che “il termine risultante esprime compiutamente la realtà del processo di elaborazione in quanto l’idea-guida, che presumibilmente organizza il mondo interno del soggetto, si confronta progressivamente con l’insieme delle relazioni implicate (incluse quelle percettive) e con queste deve risultare compatibile”.

L’idea, alla base dell’elaborazione di una storia, non scompare una volta completata la costruzione della storia bensì determina un campo emotivo-cognitivo che determina, a sua volta, lo stato d’animo del paziente al cospetto della tavola successiva. “E’ evidente – dice Cuffaro – che tale stato d’animo influenzerà in qualche modo la costruzione della storia successiva”. Cuffaro, per meglio esemplificare il concetto, espone la metafora della percezione visiva relativamente al fenomeno di persistenza delle dominanti cromatiche sulla retina. “L’avere percepito per un certo tempo un’immagine in cui il rosso, ad esempio, risulti notevolmente dominante comporta che venga percepita per un certo tempo come rosata, o virante verso il rosso un’immagine successiva i cui colori siano anche sensibilmente distanti da quel colore. Perché il fenomeno si realizzi è necessario che la dominante sia vistosa e che l’immagine successiva sia presentata in rapida sequenza”(Cuffaro, 1998, p. 115). Rispetto alle dominanti cromatiche, la configurazione relazionale interna risulta notevolmente più resistente. Ciò vuol dire che tale configurazione potrà determinare o, perlopiù, influenzare la storia successiva. Nei casi più comuni capita che l’elaborazione successiva, piuttosto che costituire una ri-conferma della tematica alla base della storia precedente, si distingua per il tentativo del soggetto di allontanare l’ideazione disturbante ma anche in questo caso il modo di trattare i meccanismi di difesa fornisce – comunque – informazioni adeguate sui leit motiv che abitano il mondo interno del soggetto.

Già, il protocollo T.A.T. di un paziente và guardato complessivamente e soltanto allora vi si potranno cogliere elementi preziosi che indicano una strada precisa da percorrere per elaborare una adeguata diagnosi. Ogni parcellizzazione oppure ogni interpretazione parziale possono risultare fuorvianti in quanto non avranno tenuto nella giusta considerazione i molteplici aspetti del mondo interno della persona che ci sta di fronte!

Bibliografia

Brelet Francoise, Il T.A.T.: fantasma e situazione proiettiva, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994

Cuffaro Maurizio, Il T.A.T. nella diagnosi psicologica e clinica, Franco Angeli, Milano 1998

Jervis G., Fondamenti di psicologia dinamica, Feltrinelli, Milano 1993

Lerner P.M., Il Rorschach, una lettura psicoanalitica, Cortina, Milano 2000.

McWilliams N., La diagnosi psicoanalitica, ed. it. a cura di Sarno L. e Caretti V., Astrolabio, 1999.

Dostoevskij e il demone del gioco

Il gioco d’azzardo raccontato da un genio della letteratura*

di Cosimo Campagna

Paul Cézanne: “I giocatori di carte”. Olio su tela (47×56 cm). Musée d’Orsay di Parigi.

 I giocatori sanno bene che si può resistere  addirittura per ventiquattr’ore di seguito con le carte in mano senza neanche gettare un’occhiata a destra o a sinistra.”

Il giocatore di Fedor Dostoevskij si legge d’un fiato nello spazio di un pomeriggio e in quel pomeriggio si prova realmente un senso di smarrimento, si riflette sulle proprie dipendenze, si percepisce netto un nodo in gola!

Aleksej Ivanovic narra in prima persona la storia de Il giocatore e ciò favorisce l’immedesimazione del lettore con il personaggio centrale.
Nelle prime pagine Alesksej gioca per la prima volta alla roulette e Dostoevskij si serve di tale espediente per indugiare nella descrizione di ambienti e situazioni a lui tanto familiari (essendo stato egli stesso un giocatore d’azzardo). Con Aleksej il lettore scopre le sale da gioco, attraverso i suoi occhi assiste  alle prime puntate e osserva le facce estenuate degli altri giocatori.

Ero un giocatore anch’io: me n’ero accorto in quel preciso momento. Le braccia e le gambe mi tremavano e la testa mi girava“. Da quando Aleksej si accorge per la prima volta d’essere un giocatore a quando, nelle ultime pagine, contempla la propria rovina, il lettore vive un crescendo di emozioni al punto da esaltarsi o disperarsi a seconda che Aleksej vinca o perda.

Ero come preso dalla febbre e nell’eccitazione ho puntato tutto un mucchio di denaro sul rosso e… sono tornato in me! E soltanto in quel momento ho sentito un brivido di terrore corrermi per la schiena mentre mi prendeva un tremito alle mani e ai piedi. In un attimo mi sono reso conto con terrore cosa significava per me perdere: insieme a quell’oro puntavo tutta la mia vita” (Dostoevskij, 1992, p.156).

La  frenesia si interrompe quasi totalmente nell’ultimo capitolo del romanzo dove emerge, tangibilissima, la disperazione del giocatore che constata l’ansia continua, la costante attesa di qualcosa, la capacità di starsene intere giornate accanto al tavolo così da osservare il gioco… “Mi capita di sognarmi la roulette perfino di notte” confessa Aleksej a Mister Astley, suo interlocutore alla fine del romanzo. Questi, a sua volta, sottolinea ad Aleksej la sua situazione: “Lei vegeta (…) lei ha rinunciato perfino ai suoi ricordi…Lei adesso ha dimenticato tutte le sue migliori inclinazioni di allora; i suoi sogni di adesso, anche quelli più urgenti ed essenziali, ormai non vanno oltre al pair e impair, rouge, noir…

Ma ecco che Aleksej cerca di  reagire ripromettendosi  di non perdere il dominio di sè e di risorgere dall’uomo completamente perduto. Ed è quanto è possibile a chi si avvicina sinceramente e gradualmente – e senza farsi schiacciare dal terrore iniziale – a un percorso di conoscenza di sé così da riempire il senso il vuoto da cui il giocatore rifugge invano e spasmodicamente, incapace di trovare nuove significazioni.

Debbo dire che c’è qualcosa di particolare nella sensazione che provi quando, solo in terra straniera, lontano dalla patria e dagli amici, senza neanche sapere quel che mangerai domani, punti l’ultimo fiorino, proprio l’ultimo!.”

Dostoevskij M. F., Il giocatore, ed. or.1866,  tr.it. Garzanti, Milano 1992

*vedi Integrazione Clinica: Il gioco e l’azzardo: una distinzione fondamentale  La capacità di giocare è segno di equilibrio e salute psichica, da non confondere con la compulsione dell’azzardo

 

La dissociazione dell’identità incontra la grande letteratura

Lo sdoppiamento della coscienza nella narrativa di Dostoevskij

Del resto c’era realmente motivo 
per un simile turbamento. 
Il fatto era che quello sconosciuto 
gli era sembrato
in un certo senso conosciuto

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Ammettere che sono io o no? O far finta di non essere io, di essere qualcun altro che mi assomiglia in modo strabiliante, e fare come se niente fosse? Appunto, non sono io, non sono io e basta!”.

Ne Il sosia di Fedor Dostoevskij il sentimento di smarrimento del sé è progressivo e inevitabile: questo emerge costantemente dal monologo interiore del Signor Goljàdkin, dallo sprofondamento imponderabile nel disordine dei pensieri e delle pulsioni, dalla solitudine allucinata di una esistenza senza più alcun appiglio.

Ne Il sosia è radicale la disarmonia tra la psiche sempre più frustrata di Goljàdkin e il mondo esterno, indifferente o apertamente ostile. Il romanzo si impernia attorno al delirio di sdoppiamento del signor Goljàdkin che incontra il suo sosia in una notte di tempesta a Pietroburgo. Il sosia non è altro che il prodotto deforme della coscienza di Goljàdkin, sintesi di arrivismo, volgarità e smania di affermazione che si scontra con l’”io” goffo e impacciato del protagonista il quale, in un crescendo di angoscia, andrà incontro allo smarrimento di sé.

Lo smarrimento di sé del signor Goljàdkin ha inizio già durante il primo incontro con il sosia che, pur comparendo nella scena del romanzo come un passante qualunque, fomenta fin da subito il turbamento del protagonista che “prese a tremare in tutto il corpo, le gambe non lo ressero più, gli si piegarono le ginocchia, ed egli si lasciò cadere con un gemito su un pilastrino del marciapiede”.

Dapprima quindi l’io del signor Goljadkin incontra l’Altro, l’estraneo ma ben presto lo Straniero si rivelerà un Alter-ego. Cioè l’io incontra se stesso nelle sembianze di uno straniero, come in uno sdoppiamento: “Del resto c’era realmente motivo per un simile turbamento. Il fatto era che quello sconosciuto gli era sembrato in un certo senso conosciuto” (Dostoevskij, 1991, p.53).

Per Jabès (1991) piuttosto che di uno sdoppiamento si tratta di una metamorfosi che mette a repentaglio la propria soggettività, si tratta cioè di “diventare stranieri”, di approssimarci allo Straniero che siamo piuttosto che approssimare a sé lo Straniero. Dunque il sosia che Goljàdkin incontra non è altri che lui stesso. E, infine, il sosia non è rassicurante estraneità al di fuori di Goljàdkin bensì è dentro di lui, lo abita.

Quella che si prospetta come una scena fenomenologia dell’intersoggettività, quando la riconosciamo ci appare deformata, sottoposta ad una torsione. “E’ lo straniero, l’estraneo, che ci dice: avvicinati di più”: Rovatti (1992, p.97) sintetizza così il pensiero di Jabès e aggiunge che il “diventare stranieri” implica una esperienza di noi stessi che muova dall’ombra che sostanzialmente siamo piuttosto che dalla luce che presumiamo di essere. Insomma si tratterebbe di “avviare un movimento oppositivo in noi stessi”.

L’inquietudine del signor Goljàdkin, durante l’incontro col suo sosia, è crescente di pagina in pagina: “Goljàdkin (…) per nessun tesoro al mondo avrebbe voluto incontrarsi con lui e tanto meno poi in quel momento”.

Da quell’incontro sarà inevitabile la rottura dell’equilibrio psichico di Goljàdkin e con esso la frantumazione dell’ “io-coscienza” per usare una definizione di Scharfetter (1992, p.86): “L’io-coscienza è la certezza della persona vigile e lucida:‹‹Io sono io stesso››”. (Vedi Integrazione Clinica Gli “scherzi” della coscienza )

Nelle ultime pagine ritroviamo il signor Goljàdkin più che mai sperduto, come “un gattino innaffiato d’acqua gelata”, precipitato ormai definitivamente nella follia, col sangue che gli pulsa in testa e con un sordo singhiozzo nel petto: “Dio mio! Dio mio! Dammi fermezza d’animo, nell’infinità profondità delle mie disgrazie! Che io sia perduto, completamente annientato, non c’è alcun dubbio e tutto questo è nell’ordine delle cose, poiché non potrebbero essere in altro modo”.

 

Bibliografia

Dostoevskij, M.F. (1846), Il sosia. Milano: Garzanti, 1991.

Scharfetter, C. (1992), Psicopatologia generale (un’introduzione). Milano: Feltrinelli, 1992.

 

Immagine in evidenza di Alessandro Coppola: illustrazione tratta da “Battito d’ali”, ed. L’orto della cultura 2015  www.alessandrocoppola.com

Sul caso clinico dell’Uomo dei lupi di Freud

Miller, erede di Lacan, si confronta con il caso più controverso della storia della psicoanalisi

uomo lupi

"Ho sognato che è notte e sono nel mio letto (...) 
Improvvisamente la finestra si apre da sola 
e con grande spavento vedo che 
sul grosso noce davanti alla finestra 
sono seduti alcuni lupi bianchi (...) 
avevano la coda grossa come le volpi e le orecchie ritte 
come fanno i cani quando prestano attenzione a qualcosa. 
Preso dall'angoscia, evidentemente, 
di esser divorato dai lupi, 
urlai e mi svegliai

Il caso dell’uomo dei lupi di Sigmund Freud (1914) è probabilmente il più famoso e studiato di tutta la psicoanalisi. L’uomo dei lupi era un ragazzo di ventitré anni di origine russa di nome Sergej quando suonava per la prima volta il campanello di Freud. Lo psicoanalista austriaco lo descriveva come un uomo assolutamente incapace di affrontare la vita in maniera autonoma e che non poteva fare a meno degli altri. Freud  ipotizzò una nevrosi ossessiva seppure oggi presumibilmente il giovane sarebbe stato inquadrato in un Disturbo Borderline di personalità.  L’ uomo dei lupi è stato così denominato dal sogno fatto da Sergei all’età di quattro anni in cui vide dalla finestra della stanza alcuni lupi appollaiati su un albero che lo fissavano. Egli si svegliò dal sonno in preda al panico. Secondo l’interpretazione di Freud questo sogno era la rappresentazione di un evento realmente accaduto a Sergej da piccolo in cui aveva visto i genitori avere un rapporto sessuale.

Le più diverse e affascinanti interpretazioni sono state fatte di questo sogno e ancor più varie sono state le analisi cliniche del caso: una delle più interessanti è illustrata in “Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi” di Jacques-Alain Miller, psicoanalista lacaniano, che compie una esplorazione del mondo interno del paziente di Freud, tra il registro del simbolico e dell’immaginario.

Nel caso dell’uomo dei lupi sono riuniti insieme alcuni tratti valorizzati dalla cura analitica: la tenacia della fissazione, la straordinaria inclinazione all’ambivalenza e la capacità di conservare gli uni accanto agli altri i più svariati e contraddittori investimenti libidici. Nell’uomo dei lupi coesistono, una accanto all’altra, due correnti contrarie per cui da un lato v’è l’orrore dell’angoscia di castrazione mentre dall’altro emerge l’impulso (a tratti violento) verso le donne che potrebbe sembrare un’assunzione di virilità e che dissimula di fatto che tale virilità è stata assunta in modo incompleto ed è da considerarsi perlopiù come una risposta reattiva agli attacchi inferti al narcisismo del soggetto: l’inadeguatezza esperita nel rapporto di coppia con una donna e, ancor prima, l’orrore della castrazione!

Questo è il binarismo che si prospetta: da una parte la compulsione amorosa, virile e apparentemente univoca e dall’altra la posizione femminilizzante. Due posizioni, dunque: l’attività virile si contrappone agli elementi di passività femminile e all’identificazione con la donna e, dunque, con la madre. “Nessuna posizione della libido, una volta acquisita, poteva essere interamente revocata dalla posizione libidica successiva” scrive Freud a proposito del caso clinico dell’Uomo dei lupi, “ogni posizione continuava ad esistere accanto a tutte le altre, consentendo al malato di oscillare permanentemente tra più possibilità; ciò si rivelò incompatibile con il raggiungimento di un carattere stabile, per via delle continue oscillazioni!”

Dunque, abbiamo una passività fondamentale e, allo stesso tempo, un atteggiamento conquistatore, virile, sadico e aggressivo che è il rovescio della prima: la passività fondamentale – data dall’identificazione colla madre- si inverte in aggressività il cui motore è la “virilità narcisistica”. C’è una sessuazione inconscia malgrado una virilità manifesta risvegliata automaticamente da una situazione tipica. “Nel momento in cui c’è un attacco all’immagine si verifica uno scatenamento – scrive Jacques-Alain Miller – L’Uomo dei lupi perde i suoi punti di riferimento nel momento in cui c’è un attentato all’immagine del padre ovvero all’immagine fallica”. Per Freud, così come per Lacan, questa virilità manca di autenticità cioè – come direbbe appunto Lacan- è del registro immaginario, del registro dell’io: nell’inconscio l’uomo dei lupi è una donna, al livello immaginario invece c’è una affermazione di virilità. Nel tempo dell’infanzia l’uomo dei lupi riesce a sublimare l’inclinazione passiva e femminilizzante con la religiosità, instillata al bambino dalla madre: i sintomi di angoscia vengono sostituiti in realtà da sintomi di tipo ossessivo ma è il prezzo da pagare per lasciare l’angoscia di castrazione in direzione della pacificazione. In seguito la femminilizzazione inconscia sarà sublimata dalla carriera militare perché per il soggetto continuerà ad esserci un conflitto tra la passività fondamentale e il narcisismo dell’organo genitale tanto che la depressione si innesca ogniqualvolta c’è un attacco al narcisismo: questo spiega perché la passività dell’Uomo dei lupi non si sia trasformata semplicemente in omosessualità!

Nell’inconscio le cose si mescolano e possono coesistere anche contraddicendosi tra di loro: nell’inconscio non c’è un aut aut. La grande soluzione freudiana per questo caso è dunque la coesistenza.

Il carattere compulsivo dell’attività sessuale dell’uomo dei lupi consiste dunque nell’affermare che non è castrato e purtuttavia l’oscillazione tra attività e passività presumibilmente non esita su ciò che sembra essere il modo di godere principale del soggetto ovvero la sua identificazione con la donna:  Jacques-Alain Miller a tal proposito afferma che in questo caso la scelta eterosessuale possa essere assimilabile concettualmente a un’ ènclave ovvero a un territorio non molto esteso e completamente chiuso entro i confini di uno stato diverso da quello cui politicamente appartiene. La scelta dell’oggetto eterosessuale è perciò costantemente insoddisfacente perché costituisce una difesa in rapporto alla modalità di godimento principale del soggetto!

Bibliografia

Miller, J.A. (1866),  Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi, Macerata: Quodibet studio 2011.

Freud S. Per gli scritti freudiani si fa riferimento all’edizione Boringhieri delle Opere in 12 volumi.

L’uomo dei lupi, 1914, vol.7.

Dalla tubercolosi alla nevrosi: tutti i “vantaggi” della malattia

Un romanzo che è un elogio della malattia: La montagna incantata di Thomas Mann*

Edvard Munch Tutt'Art@ (50)
Edvard Munch: La morte nella stanza della malata, 1893. Olio su tela, cm 136×160. Oslo, Munch-museet. https://it.wikipedia.org/wiki/Edvard_Munch

Da sempre alla malattia e agli anomali stati psichici sono stati attribuiti elementi simbolici e nella letteratura ottocentesca la malattia costituisce il segno esterno dell’affinamento spirituale e subentra così alla salute e alla produttività economica.

Affinché il significato di malattia venga trasferito dal semplicistico evento fisico ai risvolti etici e psicologici, è necessario che la malattia stessa sia realmente diffusa e temibile, che se ne guarisca con difficoltà, che ne siano sconosciute le cause.

Nei tempi andati la malattia era stata inquadrata in un’ottica punitiva: angosce e tristezze accompagnavano la peste, il flagello che colpiva non il singolo individuo ma la società intera e nei mali quali la lebbra, il vaiolo e la sifilide si riteneva che la stortura fisica scaturisse da una evidente deformazione etica.

Nella letteratura ottocentesca è la tubercolosi la malattia alla quale vengono affibbiate connotazioni che superano lo scontato aspetto materiale. La tubercolosi  – che non costituì più una metafora interessante quando si individuò nel bacillo di Koch la causa fisica –  verrà in seguito “rimpiazzata” dalle malattie psichiche:  la nevrosi e la psicosi.

Il sintomo dello stato di disagio dell’individuo è da ricercare nei meandri di una complicata esistenza interiore, in una mancata integrazione con l’ambiente.

Le tematiche centrali dell’opera di Thomas Mann ruotano attorno alla malattia, quale possibile via di fuga. Ne La montagna incantata il giovane Hans Castorp si reca in un sanatorio per far visita a un cugino la cui carriera militare è stata interrotta dall’irrompere di una grave forma di tubercolosi. Durante la permanenza nel luogo Castorp prova grande attrazione verso un’affascinante paziente del sanatorio, la russa Clawdia e poco prima della partenza manifesta una forma febbrile che il primario diagnostica come un possibile focolaio di tubercolosi. Ed ecco che il medico suggerisce a Castorp di rinviare la partenza e di sottoporsi alle cure che gli saranno necessarie.

L’amore per Clawdia e il fascino della vita scandita dai ritmi sempre uguali del sanatorio, ove il tempo acquista un significato nuovo e lascia spazio alla meditazione e alla conoscenza dei fenomeni di vita e di morte, tratteranno Castorp nel sanatorio per ben sette anni.

L’intromissione di abitudini nuove e completamente diverse in quelle consuete è l’unico mezzo di trattenere la nostra vita, di ravvivare il nostro senso del tempo, insomma di raggiungere un ringiovanimento, un rafforzamento, una distensione della nostra vicenda temporale, e con questa anche un rinnovamento del nostro senso della vita.” (Thomas Mann, 1932, p.117)

Come Ascenbach in La morte a Venezia anche Hans Castorp parte per una “vacanza” e l’ambito di tale vacanza è una dimensione fatale nell’esistenza dell’individuo, che fa emergere dalle profondità insondate della psiche tendenze e pulsioni che ne sconvolgono le strutture apparentemente consolidate. La Venezia esotica e corrotta dal colera lascia spazio al sanatorio dove, dietro elementari appetiti erotici e gastronomici, si muore nelle mutevoli forme devastatrici assunte dalla tubercolosi.

La morte e la malattia in ambedue i romanzi si intrecciano ai ritmi e ai tempi della natura: il ritmo sempre uguale del mare in La morte a Venezia e l’eterno presente privo di stagioni de La montagna incantata.

L’unico modo sano, nobile, religioso, di considerare la morte è di concepirla e di sentirla come parte integrante, come complemento, come sacra condizione della vita, ma non di scinderla in qualche modo spiritualmente dalla vita, di porla in contrasto, di farne cosa ripugnante ad essa.” (Thomas Mann, 1932, p.221)

La malattia dunque subentra alla salute ma anche alla produttività borghese che entra decisamente in crisi. In La morte a Venezia le virtù borghesi di Ascenbach erano giunte ad uno stato di tale sublimazione da diventare fragili e periture, ne La montagna incantata il disgregarsi della realtà borghese si manifesta nel comportamento dei malati che – nell’ambito del sanatorio – non si muovono , rimangono sempre uguali a loro stessi e chiusi nel ritmo immutabile delle giornate all’insegna della staticità e dell’improduttività!

Ed è sempre la malattia a costituire la dimensione fatale nella vita dei personaggi dei due romanzi di Mann: ne La morte a Venezia lo scrittore Von Ascenbach non riuscirà a lasciare una Venezia infettata dalla peste pur di restare accanto all’amato Tadzio, ne La montagna incantata la malattia diventa addirittura un prezioso pretesto del quale Castorp “si serve” per trattenersi nel sanatorio e non separarsi da Clawdia, la donna ricoverata di cui egli si innamora perdutamente.

E’ così che i due eroi di Thomas Mann vengono sequestrati inaspettatamente dal loro destino!

Bibliografia

Mann, T. (1930), La montagna incantata. Milano: Dall’Oglio, 1988.

*vedi Integrazione Clinica :  Quando il paziente ha bisogno del sintomo  La malattia psichica nella maggior parte dei casi è una vera e propria strategia di elaborazione patologica di un conflitto

 

I luoghi dell’infanzia: alla ricerca delle proprie radici

Il mito delle origini nel romanzo più famoso di Cesare Pavese, La luna e i falò

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Le luci della notte mi facevano gridare
 e rotolarmi in terra perch’ero povero, 
perch’ero ragazzo, perch’ero niente. 
Quasi godevo se veniva un temporale,
 il finimondo di quelli d’estate…

Li hanno fatti quest’anno i falò? … Noi li facevamo sempre. La notte di San Giovanni tutta la collina era accesa… Chi sa perché mai si fanno questi fuochi”.
Non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace”.
E la luna, cosa c’entra la luna?
La luna … bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi”.

Il cuore de La luna e i falò di Cesare Pavese risiede quasi interamente in questi “postulati” della cultura contadina, una cultura secolare dove la vicenda dell’uomo non si snoda a prescindere dal paesaggio naturale: si tratta di una reale simbiosi all’interno della quale l’uomo e la natura si influenzano reciprocamente.
Il personaggio centrale de La luna e i falò è in realtà il narratore dell’intera vicenda. Questi ritorna nel luogo natio, un paese delle Langhe, dopo aver vissuto per lunghi anni in America dove sarebbe emigrato facendo fortuna.
Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale”.
Una singolare immutabilità del paesaggio umano ed ambientale si prospetta agli occhi del protagonista che si ritrova a contemplare i luoghi dove ha vissuto l’infanzia: “I ragazzi, le donne, il mondo non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, le ragazze fumano  – eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro tutto sarà passato”.
La straordinarietà dei romanzi di Cesare Pavese non è da ricercare nello snodarsi della trama: le vicende dei personaggi si muovono all’interno di una drammatizzazione alquanto piatta, in primo piano sono invece i sentimenti e l’avventura interiore.
L’amicizia è il sentimento più caro a Pavese, quello che traspare maggiormente dai suoi romanzi: ne La luna e i falò il narratore ritrova Nuto, il compagno di un tempo, con cui ripercorre le vicende del passato. E’ un sentimento intenso che prende corpo sullo sfondo suggestivo delle notti in collina: “Andavamo così, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro destino. Io tendevo l’orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la martinicca di un carro…
Il romanzo si snoda altresì intorno alla contrapposizione fra il tempo dell’infanzia e il tempo della maturità: da una parte ci sono le sere di collina infiammate dai falò. Le luci della notte “mi facevano gridare – rievoca il narratore – e rotolarmi in terra perch’ero povero, perch’ero ragazzo, perch’ero niente. Quasi godevo se veniva un temporale, il finimondo di quelli d’estate…
Dall’altra parte c’è l’età delle disillusioni, l’amara constatazione che crescere non vuol dire soltanto “fare delle cose difficili” bensì “andarsene, invecchiare, veder morire”.
E cosa dire del paesaggio delle Langhe che Pavese descrive con eccezionale bravura: i paesi dell’infanzia che, di giorno, sono “chiari e boscosi sotto il sole”, mentre di notte sono “nidi di stelle nel cielo nero”; le serate con gli amici che “appena fuori della luce del locale, si era soli sotto le stelle, in un baccano di grilli e rospi”.
Il destino dell’uomo e ogni ricerca di sé si risolvono quindi in un ritorno alle origini, in quei luoghi unici cui si dà un significato assoluto: in Pavese è la collina che diventa il luogo mitico dove ritornare per riconoscersi.
E cosa sono la luna e i falò se non dei riferimenti mitici che accompagnano il ciclo delle stagioni e le vicende degli uomini?
Ai falò quali elementi superstiti di una cultura popolare si affiancano altri falò, il cui significato rinvia al desiderio di ricominciare che ha l’uomo.
Dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no? magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci”.

Gli “scherzi” della coscienza

Dalle amnesie fino al disturbo dissociativo dell’identità

Per definire la coscienza possiamo riferirci alle parole di Jaspers (1913) secondo cui la coscienza è la consapevolezza di se stessi e del mondo oggettivo, cioè l’esperienza psichica attuale che include la totalità dei fenomeni psichici vissuti in un dato momento (lo stato di coscienza appunto).

In talune circostanze il soggetto, più o meno consapevolmente, provoca un restringimento del campo di coscienza: nei casi più comuni si tratta di amnesie allorquando lo stato psichico dominante –per evitare l’ansia- segrega memorie dolorose nonché impulsi e desideri mettendo in atto il meccanismo della repressione . In altri casi spiccatamente patologici invece ad agire è il meccanismo della dissociazione : ad esempio quando vi è la presenza nell’infanzia di eventi traumatici per la psiche del bambino la dissociazione ha lo scopo di escludere dalla consapevolezza le esperienze dolorose e intollerabili cui il bambino è sottoposto.

Questo meccanismo è alla base di svariati fenomeni dissociativi che vanno dalla depersonalizzazione al più invalidante disturbo dissociativo dell’identità. Quest’ultimo è stato precedentemente identificato come disturbo di personalità multipla la cui diagnosi richiede almeno due personalità che si alternano costantemente assumendo il controllo del comportamento dell’individuo. E’ evidente che le altre personalità non sono altre persone bensì delle rappresentazioni stereotipate e schematiche di un conflitto interiore ovvero memorie ed emozioni che sono state dissociate al fine di sopportare una sofferenza altrimenti intollerabile.

Più nel dettaglio sono duramente attaccate alcune dimensioni dell’ ‹‹io-coscienza››. Per quanto concerne la dimensione ‹‹consistenza e coerenza dell’io›› (Scharfetter, 1992, p.101), il soggetto non si esperisce più come unità, i suoi sentimenti e pensieri sono dissociati. Egli si sente dilaniato da forze divergenti e nella lacerazione c’è lo sdoppiamento, con relativa autonomia delle parti, ma c’è anche il senso di frantumazione.

Nel romanzo di Dostoevskij – Il sosia –  l’eroe  si sente indifeso, esposto alla mercè delle influenze esterne e, quando viene attaccato il ‹‹senso di demarcazione dell’io›› (Scharfetter, 1992, p.105), subisce un duro colpo e in luogo della identità perduta se ne insedia progressivamente una nuova.

Nel saggio sul Perturbante (1919) Freud afferma che dalla figura del doppio, ovvero del sosia, emerge il sentimento di morte dell’io, inteso come principio ordinatore del mondo. L’incontro del signor Goljàdkin con il suo sosia è forse l’incontro con il tempo della ripetizione, tempo che si prospetta spaventoso perché ripropone al soggetto porzioni di sé mai dominate definitivamente. Non si tratta di una rassicurante ritorno al passato bensì dell’irruenza minacciosa di questo nell’esistenza presente: le ombre del passato continuano ad agire, infrangono la ciclicità delle abitudini emotive ed intellettuali che formano il sentimento di consistenza dell’io.

 

*Integrazione Clinica all’articolo inserito in “Letture”:

La dissociazione dell’identità incontra la grande letteratura  Lo sdoppiamento della coscienza nella narrativa di Dostoevskij

Bibliografia

Dostoevskij, M.F. (1846), Il sosia. Milano: Garzanti, 1991.

Freud S. Per gli scritti freudiani si fa riferimento all’edizione Boringhieri delle Opere in 12 volumi

  • Il perturbante. In L’io e l’es e altri scritti, 1919, vol.9.
  • La negazione, 1925, vol.1
  • Dostoevskij e il parricidio, 1927, vol.10.

Miti G., Personalità multiple. Uno studio sui disturbi dissociativi.Roma: Carocci, 1992.

Scharfetter, C. (1992), Psicopatologia generale (un’introduzione). Milano: Feltrinelli, 1992.

Immagine in evidenza di Alessandro Coppola: illustrazione tratta da “Battito d’ali”, ed. L’orto della cultura 2015  www.alessandrocoppola.com

Bagheria: la coscienza civile di una collettività

Dacia Maraini e Bagheria: la mafia, lo scempio edilizio… ma anche un lungo racconto si sé

Dopo  Il lato oscuro del cuore  anche quella che segue è una deviazione rispetto al percorso da me intrapreso in Letture ma quando succedono eventi straordinari non si può ignorarli, ancor più se la sensibilità ne viene singolarmente colpita e la coscienza civile scalpita e si volge in direzione della libertà!

La sera dell’1 novembre 2015 assaporavo il tempo del relax in uno dei tanti bar di Bagheria: una sera come tante, in compagnia degli amici in una cittadina capace di creare atmosfere rarefatte e dagli scorci alquanto suggestivi! Eppure avrei dovuto respirare qualcosa in più nell’aria ovvero che giusto quella notte si stava preparando un risveglio delle coscienze, una contestazione decisa al controllo sociale vigente da parte della criminalità.

Quella stessa notte – esattamente alle 5.00 del 2 novembre – sarebbero state arrestate ventidue persone grazie alla collaborazione di trentasei imprenditori che si sono ribellati alle estorsioni. La scrittrice Dacia Maraini, che ha vissuto gli anni dell’infanzia a Bagheria, non ha perso l’occasione per esaltare l’assunzione di coraggio dei bagherioti: “Quando ho sentito la notizia sono saltata dalla sedia  e ho pensato che Bagheria finalmente tira fuori la sua anima migliore”. Dacia Maraini a Repubblica dopo gli arresti a Bagheria: “Sono saltata dalla sedia

Ed ecco che ho ritrovato Bagheria, un vecchio romanzo della Maraini che avevo letto con grande interesse e dove la scrittrice – più di vent’anni fa – già denunciava il malcostume imperante a Bagheria: alle descrizioni di paesaggi incantevoli si affianca, infatti, la denunzia accorata di “un certo modo di fare politica”. La Maraini si scaglia contro lo scempio edilizio degli anni Sessanta che ha provocato la distruzione sistematica delle bellezze naturali e architettoniche di Bagheria.

I lavori hanno continuato a imperversare, e i due polmoni verdi di Bagheria sono stati «mangiati in due bocconi». Al loro posto (…) un mare di case nuove, affastellate in dispregio di ogni regola architettonica e urbanistica. (…) In questo modo le straordinarie ville settecentesche di Bagheria, che sono fra le più preziose ricchezze della Sicilia, sono state private dei loro contorni, rimanendo lì (…) come testimoni intirizziti  e malmenati di un passato che si ha fretta di distruggere”  (ed. Superbur 1996, pagg. 57-58).

Leggendo Bagheria di Dacia Maraini si respira un’aria profondamente familiare: c’è Porticello, col suo “rumore continuo delle onde sulle rocce”, c’è Aspra “con le sue barche da pesca tirate in secca sulla rena bianca” e soprattutto c’è Bagheria “circondata di limoni e ulivi, sospesa in alto sopra le colline, rinfrescata da venti salsi che vengono dalle parti di Capo Zafferano”.

La predilezione dell’autrice per il mare emerge da certe pagine scritte con estrema poesia: “(…) Facevo conoscenza con quel corpo materno e sfuggente, maligno e gentile che è il mare e e ne sarei innamorata per sempre”.

Ma Bagheria è soprattutto un lungo racconto di sé dove l’autrice, più che mai attenta alla musicalità dei ritmi descrittivi, narra di quando – da bambina – andava a caccia di gelsi o correva contenta in mezzo ai contadini.

Il sentimento profondo per il padre emerge in modo struggente: “ L’ho amato molto questo mio padre, più di quanto sia lecito amare un padre. E per tutta la mia infanzia l’ho amato senza essere ricambiata. E’ stato un amore solitario il mio. Vegliavo su di lui, sulle sue impronte mai ripercorse, sui suoi odori segreti”.

C’è un’intensa nostalgia nel romanzo di Dacia Maraini, la consapevolezza profonda di un tempo – coi suoi profumi – che è andato irrimediabilemte perduto: “Anni dopo ho piantato dei gelsomini sulla mia terrazza romana, in estate spio il loro aprirsi aspettando di coglierne il profumo. Ma ogni volta è una delusione. Il profumo c’è ma è così fievole e leggero, non ha niente dell’intensità quasi dolorosa dei gelsomini di Bagheria”.